Il Disturbo Post-Traumatico da Stress ed il vissuto del Trauma
Alessandra Corridore
INDICE DISPENSE UNIVERSITARIE
- Il trauma in psichiatria: un po’ di storia
- Diagnosi ed… oltre
- Dissociazione e memoria: da Janet ai nostri giorni
- Freud: seduzione e fantasia del trauma
- Jung e il complesso a tonalità affettiva
- Il vissuto profondo del trauma
- Conclusione
- Bibliografia
INTRODUZIONE
Ogni affetto ha tendenza a divenire un complesso autonomo,
a staccarsi dalla gerarchia della coscienza e possibilmente a trascinare l’Io con sé.
Non c’è da meravigliarsi se un primitivo vi vede l’attività di un essere straniero e invisibile, di uno spirito.
Lo spirito in questo caso è l’immagine dell’affetto indipendente, e perciò gli antichi opportunamente chiamavano gli spiriti imagines, immagini. Jung
L’esplosione di un affetto è in un certo modo un attacco su tutta la linea della personalità:
l’individuo ne è sopraffatto come da un nemico o da un animale feroce. Jung
Chi ha vissuto, ha assistito o si è confrontato con un evento o una serie di eventi traumatici, quali possono essere incidenti, malattie, violenze o minacce di violenze fisiche, altre violazioni o perdite di sicurezze personali, come ad esempio situazioni di grave calamità naturale (terremoto, inondazione, tornado…), in genere attiva una risposta emotiva caratterizzata da paura intensa e sentimenti di impotenza o di orrore. Tuttavia la maggior parte delle persone riesce a trovare dentro di sé le risorse per reagire, le resilienze necessarie a riemergere. Se questo non avviene è possibile che si sviluppino i sintomi del Disturbo Post-Traumatico da Stress.
In questo lavoro prenderò in esame il Disturbo Post-Traumatico da Stress, definizione entrata nella terminologia diagnostica psichiatrica nel 1980, dal punto di vista psicopatologico e psicoanalitico, mettendo in evidenza l’evoluzione storica del concetto di trauma, le categorie diagnostiche che descrivono il DPTS, le ultime scoperte in campo neurofisiologico e le teorie che hanno contribuito ad ampliare le riflessioni sulle esperienze intollerabili e sui loro effetti sul corpo, sulla mente, sulla psiche degli individui. Molto interessanti in tal senso sono i contributi di Bessel Van der Kolk, a tutt’oggi il più importante studioso in materia di trauma.
Particolare attenzione verrà riservata alle teorizzazioni di Freud e Jung, che hanno aperto la via a successive riflessioni, l’uno introducendo la tematica del trauma, che inizialmente considerò in senso letterale per poi concentrarsi sulla fantasia, sul vissuto traumatico dei suoi pazienti, l’altro con la sua teoria dei complessi a tonalità affettiva.
I complessi per Jung sono normali fenomeni vitali della psiche sia infantile sia differenziata, anche se in una psiche non differenziata a sufficienza, come quella del bambino o del primitivo, una situazione traumatica può portare alla dissociazione nevrotica della personalità. Ciò accade perché, in questi casi, la coscienza ha un carattere insulare o di arcipelago, non è ancora completamente integrata, non ancora centrata in un complesso dell’io consolidato in grado di confrontarsi con i contenuti che emergono dall’inconscio.
Vissuti infantili, quindi, profondamente traumatici possano diventare ferite psicologiche permanenti, riproponendosi nella vita in ripetute re-citazioni, come se l’individuo fosse posseduto da una potenza diabolica o da un fato maligno.E, ammesso che egli riesca a tenere a distanza i contenuti legati all’esperienza traumatica, evitando accuratamente le situazioni che li riattiverebbero, ma anche rinunciando alla propria essenza creativa, di fronte ad esperienze intollerabili al limite tra la vita e la morte questi possono riemergere e sommergerlo. In termini junghiani si riattiverebbero quei nuclei complessuali autonomi che la psiche teneva dissociati, insieme all’affetto ad essi legato.
Successivamente diversi altri autori si sono occupati del trauma in rapporto allo sviluppo della personalità, ed hanno posto l’accento sull’importanza della relazione precoce madre – bambino.
Tra questi dovrò operare una scelta ponendo in risalto alcune tematiche fondamentali. Una di queste è l’importanza della relazione con una madre sufficientemente buona, contenitiva che fornisca al bambino un ambiente facilitante. È attraverso le cure materne infatti che il soggetto pone le premesse per lo sviluppo della capacità di contenimento, fondamentale per affrontare le frustrazioni e per difendersi dalla disgregazione della personalità (Winnicott). Esse si basano principalmente sull’esperienza cutanea nella primissima infanzia, di cui si è occupato Ogden, della pelle che viene a rappresentare il luogo della vita e, allo stesso tempo, limite e contenimento rispetto al mondo esterno. Se si verificano situazioni eccessivamente frustranti, scrive Kohut, può prodursi un arresto evolutivo (fissazione narcisistica) ed una messa in crisi traumatica del Sé; se la frustrazione, invece, non sarà troppo intensa (frustrazione ottimale) consentirà la modulazione graduale dell’onnipotenza infantile. Il Sé vulnerabile, che ha subito una ferita narcisistica (trauma) prodotta, nell’infanzia, dall’incapacità dei genitori di rispecchiare la grandiosità del bambino, genererà angoscia di disintegrazione, dalla quale il soggetto tenterà di difendersi. Neumann parla dell’Io d’angoscia che rappresenta il precipitare nell’abbandono e nella paura di un nulla senza fondo perché ha dovuto sperimentare l’aspetto Terribile della Grande Madre,l’abbandono e la rabbia, che si esprime in un’aggressività non integrabile poiché legata ad un Io negativizzato, non amato e non degno di amore, solo e spinto per questo a divenire prematuramente autonomo. Il sintomo che contraddistingue questa situazione è il senso di colpa primario. Il senso di inadeguatezza, quindi, può portare a dover elaborare una personalità alternativa, che Winnicott definisce falso Sé, proteggendo la vera essenza creativa della personalità.
Concluderò con l’interessante lavoro di Kalshed, Il mondo interiore del trauma, nel quale egli si avvale dei contributi di diversi autori e della sua esperienza personale di analista per dare voce al vissuto ed alle immagini del trauma precoce. Egli scrive che, se le cure materne vengono a mancare o si verificano esperienze traumatiche, il bambino è minacciato dall’angoscia di disintegrazione (Kohut) che può portarlo ad attivare un sistema difensivo arcaico capace di annientare l’organizzazione del suo mondo psichico interno. L’esperienza viene privata di significato e pensieri ed immagini si dissociano dall’emozione. Si può determinare una situazione psichica che McDugall definisce alessitimica, in cui i pazienti non hanno parole per i sentimenti. Può verificarsi una frammentazione della coscienza in parti,i nuclei complessuali autonomi di cui parlava Jung,che si organizzano secondo modelli arcaici, archetipici. Di solito la parte scissa regredisce ad un periodo infantile. Utilizzando la terminologia di Winnicott, Kalsched definisce questa parte psichica come Vero Sé che, in pazienti traumatizzati, viene scisso dal resto della personalità. L’altra parte progredisce troppo velocemente e si adatta precocemente al mondo esterno, tentando di proteggere quella regredita, costellandosi come un Falso Sé. La parte progredita della personalità, dunque, si “prende cura” della parte regredita fino al punto in cui il sistema archetipico autocurativo della psiche impazziscetrasformandosi in un ‘sistema autodistruttivo’ che trasforma il mondo interiore in un incubo di persecuzione e autoaggressione.
Per Kalsched, come per altri autori ai quali fa
riferimento, non è
possibile uscire da questa condizione, non vi può essere elaborazione del
trauma senza un lavoro analitico. L’originaria situazione traumatica, infatti, mette
seriamente in pericolo la sopravvivenza della personalità, soprattutto perché
non viene conservata nella psiche in una forma personale, e quindi accessibile alla memoria, ma in forma di dinamica archetipica. Questo strato collettivo dell’inconscio ha bisogno di
“incarnarsi” in una interazione umana, in una esperienza di
“ritraumatizzazione” che non sia soltanto la ripetizione inconscia del vissuto
traumatico nel mondo interiore, ma che diventi una traumatizzazione reale con
un oggetto nel mondo,
affinché il processo interiore e l’essenza creativa della psiche possano
riattivarsi.
1 – IL TRAUMA IN PSICHIATRIA: UN PO’ DI STORIA
La nostra rabbia era antica, atavica.
Noi eravamo arrabbiati come tutti gli uomini civili che furono inviati
a compiere omicidi in nome della virtù.
Un veterano della Seconda Guerra Mondiale
Le riflessioni sul trauma e sui disturbi ad esso correlati hanno caratterizzato marginalmente ed in maniera discontinua la storia della psichiatria che soltanto nel 1980 è riuscita a ‘dare un nome’, e quindi una dignità, a quelle persone il cui vissuto traumatico veniva scambiato per simulazione, suggestionabilità, mancanza di volontà… È probabile che ciò sia accaduto per innumerevoli ragioni di tipo sociale, economico e politico, ma soprattutto di tipo psicologico, e che le due guerre, per periodi circoscritti, siano riuscite ad intaccare il ‘diniego’ nei confronti del trauma psichico. Per alcuni autori tale periodica negazione va fatta risalire al fatto che la coscienza collettiva occidentale, seppur solidale ed altruista nei confronti delle vittime di un trauma acuto, non sia in grado di sopportare la loro presenza ‘a lungo termine’. Scrive Van der Kolk, eminente studioso del trauma, insieme ai i suoi collaboratori:
“Le vittime sono quei membri della società i cui problemi incarnano il ricordo della sofferenza, della violenza e del dolore in un mondo che aspira a dimenticare.
Il dibattito, iniziato nella seconda metà del XIX secolo, contemplava opinioni controverse inerenti all’eziologia dei sintomi da stress traumatico. Queste vertevano sulla loro natura organica o psicologica, sulla valenza oggettiva legata all’evento o sul vissuto soggettivo di questo, e quindi sulla possibilità che vi fossero vulnerabilità individuali a determinarne i sintomi. Ci si chiedeva se i pazienti in questione fossero dei simulatori, affetti da debolezza morale o da una involontaria disgregazione della capacità di mantenere il controllo della propria vita.
Nel 1859 lo psichiatra francese Briquet ipotizzò che ci fosse una connessione fra i sintomi dell’isteria, compresa la somatizzazione, ed episodi traumatici vissuti in età infantile. Egli ebbe il merito, da un lato, di aver attribuito una valenza psichica ai sintomi legati alle esperienze traumatiche, stabilendo le prime connessioni con la patologia isterica, dall’altro, di aver dato visibilità al trauma sessuale infantile, che rappresentava probabilmente l’’ombra’ dell’allora società vittoriana.
In quegli anni la medicina si sforzava di comprendere le interconnessioni tra i ‘sintomi del corpo’ e i ‘sintomi della mente’. C’era chi rifiutava di ricondurre sintomi che coinvolgevano la sfera organica, come l’ansia, a problematiche psicologiche, facendoli risalire a patologie organiche. Uno di questi era il chirurgo inglese Erick Erichsen (1866,1886). Egli ritenne, ad esempio, che i problemi psicologici di pazienti feriti o menomati durante incidenti ferroviari fossero da far risalire a lesioni organiche alla spina dorsale. Affermava che la “railway spine sindrome” (spina dorsale del ferroviere), caratterizzata da stanchezza, ansia, disturbi della memoria, irritabilità, disturbi del sonno, incubi, rumori alle orecchie, vertigini, dolore agli arti, non doveva essere confusa con i sintomi dell’isteria, allora considerata una malattia soltanto femminile. Diversamente la pensava un collega di Erichsen, anch’egli chirurgo, Page (1885), il quale riteneva che i sintomi della “spina dorsale del ferroviere” avessero origine psicologica. Pensava che fossero stati commessi molti errori poiché il terrore non era stato considerato una motivazione sufficiente per la formulazione di una diagnosi. Individuò così in uno ‘shock nervoso’ la causa scatenante di quella serie di sintomi. Nello stesso periodo il neurologo tedesco Adolph Strumpel propose il concetto di ‘trauma psichico’ determinato da situazioni critiche che sottopongono l’individuo ad una stimolazione sensoriale soverchiante scatenando forti emozioni e sensazioni di impotenza che, in alcuni soggetti, possono trasformarsi in idee patogene.
Nel 1886 un altro neurologo tedesco, Herman Oppenheim, riportò l’attenzione sulla dimensione neurologica, quindi organicistica, dell’esperienza. Parlò di ‘nevrosi traumatica’ e avanzò la proposta che i problemi funzionali trovassero la loro origine in sottili modificazioni molecolari che hanno luogo nel sistema nervoso centrale. Ma fu durante i conflitti mondiali che l’attribuire origine organica alle nevrosi traumatiche, prevalentemente a problemi cardiaci, ebbe il ruolo fondamentale di proporre una soluzione onorevole alla sofferenza emotiva dei soldati. Diversi anni più tardi lo psichiatra militare britannico Samuel Myers, che nel 1915 fu il primo ad utilizzare l’allora espressione di uso comune ‘shock da granata’ nella letteratura medica, si rifiutò di ricondurre la sintomatologia traumatica a fattori organici.
Intanto, al Salpêtrière di Parigi, enorme complesso ospedaliero trasformato da ricovero per diseredati in tempio della scienza moderna dal neurologo francese Jean-Martin Charcot, venivano condotte le prime indagini sistematiche sulla relazione tra la malattia mentale, in particolare quella isterica, e le esperienze traumatiche. Per Charcot lo choc nerveux dovuto a tali esperienze indurrebbe i pazienti in uno stato cosiddetto ipnoide, cioè simile a quello prodotto tramite ipnosi, che permetterebbe l’autosuggestione istero-traumatica. I suoi studi si basavano sull’osservazione, la descrizione e la classificazione dei sintomi di quella che definì “la Grande Nevrosi”, l’isteria, che ‘imitavano’ patologie di origine neurologica come paralisi motoria, perdita di sensibilità, convulsioni e amnesie. Nel 1880 dimostrò che questi sintomi potevano essere indotti artificialmente e risolti tramite l’ipnosi. Si potrebbe dire, quindi, che Charcot fu il primo ad occuparsi della suggestionabilità e della natura dissociativa degli attacchi isterici nei pazienti traumatizzati.
Sulle orme di Charcot, Pierre Janet, filosofo e psicologo francese, all’inizio del ‘900 orientò le sue ricerche sull’analisi della natura della dissociazione e dei ricordi traumatici. Si convinse che i pazienti isterici avessero problemi di adattamento all’ambiente esterno poiché non riuscivano ad entrare in contatto con il proprio passato, con i propri ricordi e quindi ad avvalersi degli schemi mentali interni che da essi si originano. Definì questi ricordi inaccessibili al soggetto come idee fisse subconsce e l’isteria una fobia della memoria. Janet si rese conto che il fattore emotivo genera la distorsione del ricordo e, nel caso in cui l’emozione sia troppo forte, la dissociazione dallo stato cosciente e dal controllo volontario. Egli scrisse:
“L’oblio dell’evento che ha prodotto l’emozione … spesso accompagna le intense esperienze emotive in forma di un’amnesia continua e retrograda … – Si tratta di – una forma esasperata di un disturbo generale della memoria caratteristico di tutte le emozioni”.
Questo stato di fissazione perdura, e si manifesta attraverso forme di percezione terrificanti, preoccupazioni ossessive o vissuti emotivi ansiosi, finché i ricordi e le emozioni dissociate non prendono la forma di una narrazione e riemergono in superficie. Egli ipotizzò anche che lo sforzo continuo di mantenere fuori dalla coscienza i contenuti traumatici prosciugasse il soggetto della sua energia psichica impedendogli di impegnarsi in attività che richiedono concentrazione e creatività. Quasi contemporaneamente, a Vienna, Freud giunse a conclusioni molto simili. Fece sue molte idee di Charcot, ma ritenne che non fosse sufficiente osservare e classificare i sintomi isterici. Con Breuer scoprì, attraverso il lavoro con pazienti isteriche, che i sintomi isterici potevano essere alleviati recuperando ed esprimendo verbalmente i ricordi traumatici e gli intensi sentimenti che li accompagnavano. Inaugurò, così, la ‘terapia della parola’ che Janet aveva chiamato ‘analisi psicologica’ e che Freud definì ‘psicoanalisi’.
Al Salpêtrière il lavoro di Charcot non fu continuato, allorché Babinski vi subentrò in qualità di direttore. Sotto la sua direzione i precetti sulle origini traumatiche dell’isteria vennero respinti mentre assunsero importanza i concetti di simulazione e di suggestionabilità. Questi, purtroppo, furono strumentalizzati durante il primo conflitto mondiale. Molti psichiatri tedeschi si concentrarono sul trattamento della simulazione piuttosto che sull’alleviamento del terrore dovuto ai ricordi traumatici. Considerarono la ‘nevrosi di guerra’ come una malattia della volontà che tentavano di stimolare nel soldato con trattamenti, anche molto dolorosi, di natura fisiologica tanto che i soldati spesso chiedevano di essere spediti in prima linea per non sottoporvisi più. Ed al loro ritorno, una volta terminata la guerra, lo stress postraumatico non veniva legittimato e, anzi, un eminente psichiatra tedesco, Bonhoffer, con dei colleghi, fondò una scuola di pensiero secondo la quale la nevrosi traumatica veniva considerata una malattia sociale, curabile solo con rimedi “sociali”. Tuttavia la sua “terapia sociale” non includeva un miglioramento delle condizioni sociali dei soldati. Egli, infatti, attribuì a debolezze intrinseche dei soggetti le reazioni negative al trauma e, oltretutto, si convinse che l’obiettivo principale delle vittime fosse la possibilità di un beneficio secondario: il risarcimento assicurativo. Queste teorie influenzarono certamente la Legge sull’assicurazione nazionale tedesca, varata nel 1926, che non prevedeva alcun risarcimento per la nevrosi traumatica.
Van der Kolk e i suoi collaboratori individuano in queste teorie, nell’intolleranza verso la ‘debolezza’ e nel trattamento successivo dei veterani di guerra, considerati come ‘handicappati morali’, una delle cause dell’ascesa del Partito Nazionalsocialista e quindi dello scoppio del secondo conflitto mondiale. Egli scrive:
“Questa catena di umiliazioni subite da chi non aveva potere pose le basi per il definitivo smantellamento dei diritti umani sotto il regime nazista, lo sterminio dei deboli e dei diversi, e la giustificazione morale per la sottomissione dei popoli ‘inferiori’, cioè la giustificazione per la guerra che ne derivò”.
In sintesi, la mancata elaborazione del trauma avrebbe portato ad una ‘ritraumatizzazione’ nel conflitto successivo.
Non solo ai militari tedeschi, però, vennero riservati trattamenti disumani. Ad esempio lo psichiatra inglese Lewis Yealland, nel 1918, scriveva che i pazienti, allora definiti ‘moralmente invalidi’, dovessero essere trattati con una terapia fatta di umiliazioni, minacce e punizioni, ed i sintomi isterici curati con l’elettroshock. Al contrario, le autorità mediche più illuminate ritennero che la ‘nevrosi da combattimento’ si presentasse in modo particolare in soldati di elevato carattere morale e sostennero un trattamento basato sui principi della psicoanalisi introdotti da Freud.
Una testimonianza dell’applicazione di questo metodo sui militari affetti da stress da combattimento durante la prima guerra mondiale la abbiamo dal giovane ufficiale Siegfried Sassoon, che si era distinto per il suo coraggio nei combattimenti, ma che poi si oppose alla stessa autorità militare che aveva servito con tanta dedizione. Era stato preso in cura da W.H.R.Rivers, un medico dagli innumerevoli interessi, professore di neurofisiologia, psicologia e antropologia. Da lui era stato accolto con dignità ed incoraggiato a parlare e a scrivere sul terrore della guerra. Egli scrisse, a proposito della sua terapia con Rivers:
“Mi fece sentire subito sicuro e sembrava che sapesse tutto di me … darei molto per le registrazioni delle mie conversazioni con Rivers. Ma tutto resta nel mio ricordo di un uomo grande e buono che mi concesse la sua amicizia e la sua guida”.
Tuttavia i vissuti traumatici non sono sempre conseguenze di comportamenti umani distruttivi quali le guerre, la violenza, gli abusi sull’infanzia, ma anche di situazioni di grande calamità naturale. Lo psichiatra svizzero Edouard Stierlin (1909-1911) condusse le sue ricerche in tale direzione occupandosi delle popolazioni che avevano vissuto due grandi catastrofi naturali, il terremoto di Messina del 1907 ed un disastro minerario del 1906. Fu il primo ad occuparsi di intere popolazioni, non quindi di soggetti con patologie specifiche, e ad osservare come queste affrontassero le tematiche della vulnerabilità e della capacità di ripresa. Lavorando in particolare con i sopravvissuti al terremoto, un disastro immane che contò 70.000 vittime, constatò che il 25% della popolazione sopravvissuta mostrava disturbi del sonno ed incubi.Come i suoi predecessori del Salpêtrière, quindi, individuò nelle emozioni violente i fattori eziologici dei sintomi post-traumatici e ritenne che la nevrosi traumatica fosse l’unico complesso di sintomi psicogeni per l’insorgenza del quale non fosse necessaria nessuna predisposizione psicopatologica. Tale ipotesi fu oggetto di discussione con Kraepelin che, nei suoi scritti, riteneva fosse poco frequente e atipica una nevrosi che avesse come fattore eziologico la paura.
Fondamentali nella storia della psichiatria furono i contributi dello psichiatra americano Abram Kardiner. Egli, dopo essersi sottoposto ad analisi con Freud, iniziò la sua carriera curando veterani del primo conflitto mondiale. Ma fu in seguito ad i suoi studi antropologici, che gli permisero di osservare il trauma anche dalla prospettiva sociale, e con lo scoppio della seconda guerra mondiale che riuscì a sistematizzare tutte le sue osservazioni e riflessioni in un vasto studio clinico e teorico, che pubblicò nel 1941, intitolato Traumatic Neuroses of War. Egli scriveva:
“il nucleo della nevrosi è una fisionevrosi. Questa si riscontra nel campo di battaglia e durante l’intero processo di organizzazione; sopravvive a qualsiasi espediente di adattamento intermedio e persiste nelle forme croniche. La sindrome traumatica è sempre presente e inalterata”.
Egli infatti notava una eccitazione fisiologica estrema nei suoi pazienti affetti da nevrosi traumatica, i quali vivevano in un continuo stato di allerta, erano guardinghi ed estremamente sensibili agli stimoli esterni. Continua Kardiner:
“Questi pazienti non riescono a sopportare un buffetto improvviso sulla schiena, non tollerano di inciampare o incespicare. Da un punto di vista fisiologico, si riscontra un abbassamento della soglia della stimolazione, mentre da un punto di vista psicologico, ha luogo un’eccessiva disponibilità alle reazioni di spavento”.
A livello più profondo lo psichiatra osservò che l’io dei pazienti affetti da sindrome traumatica patologica era così assiduamente impegnato a proteggere se stesso ed il soggetto dal ricordo del trauma da rimanere bloccato nel trauma stesso. Come anche Janet e Freud, egli affermava:
“Il soggetto agisce come se la situazione traumatica originale fosse ancora in essere e avvia espedienti protettivi che nell’occasione originale non hanno sortito alcun effetto. Ciò significa, all’atto pratico, che il suo concetto del mondo esterno e la sua concezione di se stesso sono stati alterati in modo permanente”.
Per quanto riguarda la terapia, come Janet e Freud, riteneva che l’abreazione indotta dall’ipnosi o dalla somministrazione di sostanze psicotrope non rappresentasse una cura durevole poiché le memorie emerse non venivano integrate dalla coscienza. Per cui riteneva fondamentale l’utilizzo della ‘terapia della parola’.
Con i militari, sia al fronte sia dopo la seconda guerra mondiale, lavorarono grandi clinici statunitensi che cercarono di applicare i precetti di Kardiner, come Lawrence Kubie, Roy Grinker, Herbert Spiegel, John Spiegel, Walter Menninger, Lawrence Kolb. Questi riscoprirono la difficoltà dei pazienti a parlare del trauma e l’impronta duratura che questo lasciava sulla psiche. Scrivevano Grinker e Spiegel:
“non è come la scrittura su una tavola, che si può gettare via, facendo tabula rasa. L’esperienza bellica lascia un’impronta duratura nella mente dell’uomo, modificandolo radicalmente quanto qualsiasi esperienza cruciale a cui può essere soggetto”.
Negli Stati Uniti vennero praticate per la prima volte sedute post-operative di gruppo per i soldati in caso di stress, un precedente fondamentale all’affermazione della psicoterapia di gruppo, che successivamente si diffuse con psichiatri del calibro di Menninger (USA) e Bion (Inghilterra).
Alla fine del conflitto un ramo indipendente di ricercatori si occupò degli effetti a lungo termine del trauma sulle vittime dell’Olocausto. Eitinger e Strom (1964; 1973) documentarono dettagliatamente che i sopravvissuti ai campi di concentramento mostravano una aumentata mortalità e una accentuata morbilità somatica e psichiatrica. Coniarono il termine “sindrome da campo di concentramento” che coinvolgeva non soltanto i sintomi che attualmente descrivono il DPTS, ma anche cambiamenti duraturi di personalità.
Henry Krystal (1968, 1978, 1988) studiò gli effetti delle traumatizzazioni subite dai superstiti dei campi di concentramento ed ipotizzò che l’esperienza chiave consista nel senso di resa, nell’accettazione della morte e della distruzione come fatti ineluttabili. Anch’egli giunse a conclusioni simili a quelle di Kardiner e Janet, notando che gli effetti del trauma partono da un’aumentata iperattivazione per poi produrre un progressivo blocco emotivo fino all’inibizione del comportamento. Secondo Krystal l’iperreattività cronica farebbe si chei soggetti traumatizzati perdano la capacità di differenziare gli affetti e di cogliere il significato di ciò che provano (alessitimia). Tali capacità si acquisiscononell’infanzia in cui il bambino si trova ad “interpretare gli stati corporali in termini di emozioni che sono indicatori personali di rilevanza e che assurgono al ruolo di guide per l’azione successiva”.Dunque, i soggetti traumatizzati, incapaci di sentire le proprie emozioni,diventerebbero inclini a tempeste affettive e reazioni psicosomatiche indistinte, che non gli permetterebbero risposte adattive.
A questo punto è opportuno sottolineare che quasi tutte le ricerche sulle conseguenze psicobiologiche del trauma, che si collocano nel periodo che va tra il 1895 ed il 1974, si sono concentrate su vittime di sesso maschile e di razza bianca. Negli anni Settanta, invece, all’interno del movimento femminista, si cominciò a parlare del ‘problema senza nome’ che tanto creava imbarazzo alla società: la violenza sessuale. Per la prima volta nel 1972, nel City Hospital di Boston, fu realizzato uno studio sui sintomi della sindrome da trauma da violenza sessuale dall’infermiera psichiatrica Ann Burger e dalla sociologa Lynda Holmstrom. Ne risultò che i sintomi quali insonnia, nausea, reazioni di soprassalto, incubi, dissociazione o ottundimento, ricordavano quelli già descritti dei veterani di guerra. Attraverso ricerche sistematiche sulla violenza familiare, emersero anche dati su abusi perpetrati sui bambini, sebbene ancora negli anni Ottanta, in molti manuali di psichiatria statunitensi, si sminuissero i numeri di questo fenomeno. Al contrario, altre voci, come quella di Judith Hermann, cominciavano a documentare la sua devastante diffusione.
Nello stesso periodo, negli Stati Uniti, dopo la guerra in Vietnam, si ripropose il problema della solitudine dei veterani di guerra. I soldati, però, riuniti nell’associazione Vietnam Veterans Against the War, rifiutarono di essere dimenticati, messi all’indice, ed insistettero sulla dignità della propria malattia chiedendo che fossero istituiti gruppi riservati ai reduci della guerra nei territori in cui questi erano tornati ad abitare. In collaborazione con due psichiatri statunitensi, Chaim Shatan e Robert J. Lifton, si organizzarono in rap groups basati sulla tecnica dell’auto-aiuto che a mano a mano si diffusero per tutto il continente. Venne a crearsi così una rete informale di professionisti interessati al mancato riconoscimento dei diritti dei reduci di guerra. Questi cominciarono a leggere le ricerche di Kardiner, la letteratura sui superstiti dell’Olocausto e il corpus di opere esistenti sulle vittime di ustioni ed incidenti. Elaborarono un sistema di classificazione molto simile a quello descritto da Kardiner, nato dal confronto delle teorie da lui elaborate con gli oltre settecento casi di reduci di guerra da loro documentati.
A queste
ricerche successero diverse convention dell’American Psychiatric Association
che approdarono all’inserimento del Disturbo Post-Traumatico da Stress nel
DSM-III. In questa diagnosi vennero raccolte le sintomatologie della ‘sindrome
da trauma da stupro’, della ‘sindrome della donna maltrattata’, della ‘sindrome
del reduce del Vietnam’ e della ‘sindrome del bambino violentato’. Ciò non era il
frutto di studi sistematici, che però vennero in seguito con l’elaborazione
della versione successiva del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali,
il DSM-IV, e con l’attuale DSM –IVTr.
2 – DIAGNOSI ED … OLTRE
Il senso della continuità del passato, attraverso il presente verso il futuro,
è perso,
e la persona sente che non c’è nessun motivo per continuare,
che non c’è niente che valga la pena di cercare di conquistare. Sims
Il Disturbo Post-Traumatico da Stress, come già ho accennato, solo nel 1980 ha trovato la sua collocazione nel Manuale Diagnostico e Statistico Dei Disturbi Mentali, un passo fondamentale che ha permesso di dare un nome ed una dignità agli effetti delle esperienze dolorose sul corpo e sulla psiche. Ha aperto la strada a studi sistematici e scientifici che hanno disconfermato pregiudizi molto diffusi, legittimando le vittime e la loro sofferenza e aprendo nuove ricerche sulla comprensione delle afflizioni umane.
Nell’attuale DSM-IVTr, che risale al 2000, il Disturbo Post-Traumatico da Stress è classificato tra i Disturbi d’Ansia. Per la diagnosi è necessario tener presente che i sintomi di solito esordiscono nei primi tre mesi dopo il trauma, anche se vi può essere un ritardo di mesi o di anni; in circa la metà dei casi la remissione completa si ha in tre mesi, in altri casi può arrivare anche a dodici mesi.
Il primo criterio diagnostico prevede che la persona abbia vissuto, assistito o si sia confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, minaccia di morte, gravi lesioni, minaccia di integrità fisica propria o di altri. La risposta deve essere caratterizzata da una paura intensa, sentimenti di impotenza o di orrore. Nei bambini il DPTS può evidenziarsi tramite un comportamento disorganizzato ed agitato.
Per soddisfare il secondo criterio diagnostico l’evento traumatico dovrà essere rivissuto in maniera persistentemente attraverso uno o più dei seguenti sintomi:
– ricordi spiacevoli ricorrenti ed intrusivi dell’evento, che comprendono immagini, pensieri, percezioni. Nei bambini piccoli si possono manifestare giochi ripetitivi in cui vengono espressi temi o aspetti riguardanti il trauma;
– sogni spiacevoli ricorrenti dell’evento. Nei bambini possono essere presenti sogni spaventosi senza un contenuto riconoscibile;
– sensazione di agire e sentire come se l’evento si stesse ripresentando, e quindi sensazioni di rivivere l’esperienza, illusioni, allucinazioni, episodi dissociativi di flashback, compresi quelli che si manifestano al risveglio o in stato di intossicazione. Nei bambini piccoli possono manifestarsi rappresentazioni ripetitive specifiche del trauma;
– disagio psicologico intenso all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico;
– reattività fisiologica all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico.
Il terzo criterio diagnostico è legato all’evitamento persistente degli stimoli associati al trauma e all’attenuazione della reattività generale (non presenti prima del trauma), come indicato dalla presenza di tre o più dei seguenti sintomi:
– sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversioni associate al trauma;
– sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma;
– incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma;
– riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività significative;
– sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri;
– affettività ridotta (es. per incapacità di provare sentimenti d’amore);
– sentimenti di diminuzione delle prospettive future (es. carriera, matrimonio, figli, una normale durata della vita).
Sintomi persistenti descritti dal secondo criterio si riferiscono ad un aumentato livello di arousal non presente prima del trauma, come indica la presenza di almeno 2 dei seguenti elementi:
– difficoltà di addormentarsi o di mantenere il sonno;
– irritabilità o scoppi di collera;
– difficoltà di concentrazione;
– ipervigilanza;
– esagerata risposta d’allarme.
Il quarto ed il quinto criterio descrivono rispettivamente la durata dei disturbi fino ad ora elencati, che deve essere superiore ad un mese, ed il fatto che questi causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.
Nella diagnosi va specificato anche se si tratta di DPTS Acuto, di durata inferiore ai tre mesi, o Cronico, dai tre mesi in poi, e se si tratta di DPTS ad esordio ritardato, cioè con un esordio almeno di sei mesi successivo all’evento stressante.
L’analisi differenziale permette di distinguere il DPTS da altri tipi di disturbi. Si ha, infatti, il DPTS soltanto se l’evento è di natura estrema e se sono soddisfatti a pieno i criteri del disturbo, altrimenti si può essere in presenza di un Disturbo dell’Adattamento. Sintomi di evitamento, intorpidimento, aumento di arousal prima dell’esposizione all’evento stressantenon soddisfano i criteri del DPTS e richiedono diagnosi di altri disturbi, come i disturbi d’Ansia o dell’Umore. Se sono soddisfatti anche i criteri di un altro disturbo, ad esempio del Disturbo Psicotico Breve, del Disturbo di Conversione odel Disturbo Depressivo Maggiore, dovrebbero essere fatte entrambe le diagnosi. Il Disturbo Acuto da Stresssi distingue dal DPTS poiché il quadro sintomatologico si manifesta e si risolve entro un periodo di quattro settimane. Nel Disturbo Ossessivo Compulsivoi pensieri intrusivi, presenti anche nel DPTS, non sono sintomi correlati all’esperienza traumatica, mentre nella Schizofrenia e in altri disturbi psicotici, nel Disturbo Dell’Umore con Manifestazioni Psicotiche, nei Disturbi Indotti da sostanze e nei Disturbi Psicotici Dovuti ad una Condizione Medica Generale sono presenti illusioni, allucinazioni e altri disturbi percettivi, che invece nel DPTS non si manifestano. Infine, in situazioni che implicano risarcimento, accesso a benefici e determinazioni legali dovrebbe essere presa in considerazione la Simulazione.
Dopo aver elencato i criteri che permettono di formulare la diagnosi del DPTS, però, mi sembra opportuno soffermarmi su alcune riflessioni. Van der Kolk e McFarlane hanno posto l’accento sulla complessità e la molteplicità dei modi nei quali gli individui reagiscono ad esperienze sconvolgenti. La complessità di tali risposte emerge dalla recente scoperta dell’esistenza di una stretta correlazione tra trauma, dissociazione e somatizzazione. Gli autori ritengono che il trauma possa colpire le vittime a qualsiasi livello di funzionamento: biologico, psicologico, sociale o spirituale e dunque, in termini di diagnosi psichiatrica, che presenti un alto livello di comorbilità con i disturbi dell’umore, i disturbi dissociativi, i disturbi d’ansia, ma anche con l’abuso di sostanze stupefacenti e con le patologie del carattere. Limitarsi, quindi, ai sintomi descritti nel DSM-IV per gli autori sembra insufficiente. Ad esempio, osservare fenomeni di interferenza, apatia o eccitazione, non riconoscendo i mutamenti di personalità che vi possono essere alla base, potrebbe ostacolare il successo del trattamento. Tuttavia, nelle ultime versioni del Manuale, sembra comincino a comparire nella sezione “Aspetti e disturbi associati”, grazie alle ricerche di Van der Kolk, espressioni come: regolazione affettiva disturbata, aggressività verso gli altri e verso se stessi, problemi dissociativi, somatizzazioni e reazioni alterate con se stessi e con gli altri.
Van del Kolk in un suo articolo esordisce dicendo che subire dei traumi è parte integrante della natura umana, anche se la maggior parte dei soggetti che sono sottoposti ad esperienze terribili si adattano ad eventi anche tremendi con flessibilità e creatività non sviluppando disturbi psichiatrici. Molti, tuttavia, pur riprendendo la loro vita apparentemente senza essere ossessionati dal ricordo del trauma, spesso diventano sensibili a quell’evento. Il riemergere intrusivo, non intenzionale, del ricordo, infatti, è un modo normale per reagire ad esperienze del genere. Per Horowiz questa continua riattualizzazione del ricordo angoscioso ha la funzione di modificare le emozioni legate al trauma e a mano a mano elaborarne i contenuti.
Alcune persone però, aggiunge Van del Kolk, con il passare del tempo diventano incapaci di assimilare tale contenuto sviluppando modelli specifici di evitamento ed iperreattività associati al DPTS. La vita allora comincia a ruotare attorno al trauma e la persistenza del ricordo diventa, più dell’esperienza di esposizione diretta al trauma, la causa della dimensione biologica e psicologica del DPTS. Dunque, accanto alla realtà della situazione traumatica, esiste un’altra realtà legata al significato che le vittime attribuiscono all’evento. L’interpretazione da parte degli individui del significato del trauma continua ad evolversi molto tempo dopo che il trauma ha smesso di esistere.
Van der Kolk individua sei particolari sensazioni e atteggiamenti che influenzano il modo con cui i soggetti affetti da DPTS elaborano le informazioni. Le esamineremo brevemente tutte.
La prima:
“Le vittime di DPTS avvertono persistenti interferenze di ricordi legati al trauma, che ostacolano l’orientamento dell’attenzione verso altre informazioni in entrata”.
Queste interferenze Charcot, più di cento anni fa, le chiamò ‘parassiti della mente’. I ricordi dell’evento traumatico possono essere completamente dimenticati (amnesia totale) o ricordati in parte, tramite immagini e sensazioni fisiche alle quali il soggetto non riesce ad attribuire un senso. Flashback, intense emozioni con panico o rabbia, sensazioni somatiche, incubi, riattualizzazioni interpersonali, stili caratteriali o scelte di vita fondamentali possono rappresentare la manifestazione di tali interferenze. La vita dei soggetti traumatizzati sembra imprigionata nel trauma, che si ripropone come in un eterno presente. Con il tempo gli iniziali pensieri intrusivi possono arrivare a contaminare le risposte dell’individuo a stimoli apparentemente irrilevanti rispetto al trauma e divenire così sempre più penetranti e generalizzanti, rinforzando così il controllo selettivo della rete della memoria traumatica. Inoltre Van der Kolk ed i suoi collaboratori hanno dimostrato, con un loro studio, che i soggetti con DPTS rispondono di preferenza a stimoli legati al trauma, avendo un calo di attenzione invece nei confronti di stimoli neutri o piacevoli.
Un’altra caratteristica dei soggetti affetti da DPTS, che influenza l’elaborazione dell’informazione, consiste nel fatto che
“A volte si espongono in modo compulsivo a situazioni che ricordano il trauma”.
Freud spiegava tale atteggiamento come una ricerca di padronanza della situazione che, a livello profondo, può essere certamente una ipotesi interessante. Da un punto di vista più legato alla concretezza, tuttavia, può portare a pesanti sofferenze per le vittime e per chi gli è vicino. Nelle riattualizzazioni del trauma l’individuo può recitare il ruolo del carnefice, facendo del male agli altri come nell’infanzia era stato fatto a sé (ad es. con maltrattamenti o molestie), della vittima, ritrovandosi in situazioni in cui è facile che vengano rivissute le esperienze traumatiche (ad esempio di stupro), o praticare l’autolesionismo (tipico nei bambini molestati).
Il terzo atteggiamento è quello di
tentare “attivamente di evitare specifici stimolatori di emozioni legate al trauma”; allo stesso tempo si verifica nei soggetti “una caduta generale di reattività”.
Ossessionati dalle interferenze e dalle riattualizzazioni, infatti, i soggetti cominciano ad organizzare la propria vita in modo da evitare le emozioni legate al vissuto traumatico attraverso diverse vie di fuga. C’è chi, ad esempio, si limita all’evitamento di ciò che può stimolare il ricordo, chi invece cerca l’ottundimento della consapevolezza degli stati emotivi stressanti ingerendo alcol o medicinali, chi allontana dalla coscienza i contenuti traumatici tramite la dissociazione. L’evitamento è accompagnato da una caduta di reattività rispetto ad un’ampia gamma di aspetti emozionali della vita. Van der Kolk differenzia l’evitamento da quella che definisce apatia, al contrario dell’approccio del DSM-IV che li considera sullo stesso piano. Egli ipotizza che l’apatia abbia una fisiopatologia ben diversa dall’evitamento poiché molte vittime di traumi, oltre ad evitare situazioni che possono provocare eccitamento emotivo, vanno incontro ad un progressivo declino ed isolamento rispetto a qualunque stimolo, come se l’iperreattività li conduca a non essere più in grado di far fronte a stimoli fondamentali per la vita quotidiana. Inoltre alcune ricerche hanno dimostrato che bassi livelli di espressione emotiva possono condurre ad un indebolimento del sistema immunitario ed all’aumentare delle malattie fisiche.
Van der Kolk scrive anche che i soggetti affetti da DPTS
“Perdono la facoltà di modulare la loro capacità di reazione fisiologica allo stress in generale, il che porta ad un decremento della capacità di far uso di segnali corporei come direttive per l’azione”.
L’eccitazione neurovegetativa, infatti, fornisce importanti segnali corporei che normalmente conducono gli individui a porre attenzione a determinate situazioni (ad es. di allarme per pericoli imminenti), ma la costante e generalizzata iperreattività agli stimoli dei soggetti traumatizzati rende impossibile leggere le sensazioni fisiche come segnali. La loro incapacità di decifrare i messaggi del sistema nervoso autonomo, infatti, interferisce con la capacità di descrivere in forma narrativa i propri sentimenti e li conduce a reagire agli stimoli esterni secondo modalità comportamentali esagerate o inibite. Dopo un trauma inoltre molti soggetti regrediscono a strategie di coping precedenti, ad esempio i bambini possono manifestare incapacità di occuparsi di sé stessi (ad es. nelle attività di mangiare o prendersi cura del proprio corpo), gli adulti possono avere comportamenti impulsivi, atteggiamenti di eccessiva dipendenza, incapacità di prendere decisioni autonomamente.
I soggetti traumatizzati, inoltre,
“Soffrono in generale di problemi di attenzione, distrazione e discriminazione dello stimolo”.
Le difficoltà nel discriminare gli stimoli possono portarli a chiudersi totalmente al mondo rinunciando a qualsiasi coinvolgimento emotivo nella vita ordinaria di tutti i giorni, cosa che rafforza ulteriormente la fissazione sul trauma. Perdono la capacità di reagire al mondo in maniera flessibile, cosa che potrebbe spiegare i dati di alcune ricerche secondo cui questi soggetti presentano carenze nell’apprendimento conservativo ed interferenze nell’acquisizione di nuove informazioni, così come nell’utilizzo della memoria a breve termine di fronte a stimoli ambientali rilevanti.
In ultimo i soggetti con DPTS
“Soffrono di alterazioni dei meccanismi psicologici di difesa e della loro identità personale, il che influenza quali nuove informazioni verranno selezionate come rilevanti”.
Van der Kolk cita Reiker e Carmen i quali scrivono: “l’esposizione alla violenza pone in crisi le nostre convinzioni fondamentali sul Sé in quanto invulnerabile e intrinsecamente degno di valore, e sul mondo in quanto ambiente regolato e giusto. Dopo la violenza, la concezione del Sé e del mondo da parte della vittima non può più essere la stessa: dev’essere ricostruita per includere l’esperienza della violenza”. Per quanto riguarda l’attribuzione del significato all’esperienza traumatica l’età dell’individuo e le precedenti esperienze di vita sono fondamentali. Spesso i bambini traumatizzati, ma anche a volte gli adulti (ad es. le vittime di stupro), tendono ad assumersi la responsabilità dell’accaduto, cosa che gli permette di rimpiazzare i propri sentimenti di impotenza e vulnerabilità con l’illusione di un potenziale controllo. Il bambino, inoltre, ha bisogno di mantenere un’immagine positiva dei propri genitori, per far fronte alla paura ed alla rabbia generate dall’esperienza intollerabile. Il trauma, il più delle volte, genera sentimenti di umiliazione, impotenza e perdita di controllo sulla propria personalità e, in molti casi, in particolare in vittime di stupri, di vergogna che, seppur in maniera inconsapevole (perché dissociata) da parte dell’individuo, finisce per dominare tutti i suoi rapporti sociali. Può rendere i soggetti vulnerabili ad ulteriori maltrattamenti o, al contrario, carnefici a loro volta nei confronti di altri.
Il ricordo di esperienze traumatiche, dunque, può alterare l’equilibrio psicologico, biologico e sociale a tal punto da inquinarne la memoria del passato e il vissuto del presente che diviene ‘incolore’, privo degli stimoli necessari per la crescita creativa della personalità. Scrive Van der Kolk:
“Il problema centrale è costituito dall’incapacità di assimilare la realtà di specifiche esperienze con la conseguente riattualizzazione ripetitiva del trauma in immagini, comportamenti, sentimenti, stati fisiologici e reazioni interpersonali. Quando allora si ha a che fare con persone traumatizzate, diventa essenziale esaminare il punto in cui si sono ‘fissate’, e attorno a quale o quali specifici eventi traumatici hanno costruito le loro elaborazioni psichiche secondarie”.
Il
punto nodale sta nel fatto che queste esperienze del passato personale sono
difficili da recuperare poiché vengono dissociate.
Dunque, la dissociazione sembra sia
una delle caratteristiche fondamentali del Disturbo Post-Traumatico da Stress.
3 – DISSOCIAZIONE E MEMORIA: DA JANET AI NOSTRI GIORNI
La dissociazione
Se l’individuo è sopraffatto da emozioni violente,
non è se stesso.
L’oblio dell’evento che ha prodotto l’emozione
spesso accompagna le intense esperienze emotive
in forma di amnesia continua e retrograda. Janet
La dissociazione è un modo di elaborare l’informazione caratterizzato dall’assimilazione non unitaria ed integrata dei ricordi di un trauma. Può comparire sia al momento dell’evento traumatico, sia come conseguenza a lungo termine dell’esposizione al trauma.
Negli ultimi anni la psichiatria si è dedicata a ricerche sulla relazione tra processi dissociativi e problemi psicologici legati al trauma. Recenti ricerche confermano il legame che c’è tra trauma e dissociazione. Da queste si evince anche che il più importante predittore a lungo termine del completo sviluppo del Disturbo Post-Traumatico da Stress sia la presenza di esperienze dissociative al momento del trauma.
Attraverso le sue ricerche Janet si era già reso conto che i pazienti isterici non erano in grado di avvalersi dei propri processi interni come riferimenti per l’adattamento. Ipotizzò che l’eziologia di tale incapacità si potesse far risalire alla mancata integrazione nella coscienza di quelle che egli definì ‘emozioni veementi’. Questi contenuti, separati dal controllo volontario, confluirebbero in un’area, fuori dalla consapevolezza, che egli chiamò ‘subconscio’. Ritenevache i ricordi traumatici potessero essere scissi, dissociati dalla coscienza, rimanendo tuttavia latenti ed interferendo con la vita quotidiana poiché rivissuti tramite pensieri ossessivi, riattualizzazioni comportamentali, percezioni o sintomi. Citò il caso di una giovane donna che aveva sviluppato una cecità all’occhio sinistro che poteva risalire ad una situazione che per lei era stata traumatica vissuta da bambina: era stata costretta a dormire con una bambina affetta da impetigine sul lato sinistro del viso. Per far fronte allo stress una parte della sua personalità si era dissociata, permettendo alla parte dominante di evitare di vivere l’emozione scatenata dall’evento.
Janet si soffermò anche sul fatto che i pazienti,
“Incapaci di integrare i ricordi traumatici, sembra che abbiano smarrito anche la capacità di assimilare nuove esperienze. È … come se la loro personalità si sia arrestata definitivamente a un certo punto, senza potersi più espandere aggiungendo o assimilando elementi nuovi”; “sembra che l’evoluzione della – loro – vita … sia bloccata; rimangono legati a un ostacolo insuperabile”.
‘Si affezionano’ al trauma. In seguito anche Freud espresse lo stesso concetto parlando di ‘fissazione’.
Myers, lo psichiatra britannico che durante la prima guerra mondiale coniò l’espressione ‘shock da granata’, affermò che nella dissociazione i ricordi traumatici vengono immagazzinati in stati della personalità separati. Egli scriveva:
“la personalità normale è stata rimpiazzata da ciò che possiamo definire la ‘personalità emotiva’. Gradualmente o improvvisamente, si riaffaccia una personalità ‘apparentemente normale’: normale eccetto per la totale mancanza di memoria degli eventi direttamente connessi allo shock; normale eccetto per la manifestazione di altri disturbi isterici che indicano la dissociazione mentale”.
Kardiner riscontrò che la dissociazione giocava un ruolo cruciale nel comportamento dei veterani di guerra. In situazioni in cui un elemento sensoriale riattivava i ricordi traumatici, scriveva lo psichiatra americano, un “soggetto agisce come se l’evento traumatico originario fosse ancora in corso e mette in atto quelle strategie protettive che hanno fallito nella situazione originaria”. Egli descrisse, infatti, come l’ingresso nella metropolitana di New York provocasse nei veterani del Vietnam un tipo di linguaggio che richiamava il tentativo di difendersi durante un’azione militare.
Oggi col termine ‘dissociazione’ si fa riferimento a tre fenomeni distinti ma tra di essi correlati, definiti dissociazione primaria, secondaria e terziaria.
Per dissociazione primaria si intende l’incapacità di bambini ed adulti, posti di fronte ad una minaccia opprimente, ad integrare nella coscienza alcune componenti sensoriali ed emotive relative all’evento. Il ricordo di queste non verrebbe integrato in un racconto personale, ma si ripresenterebbe tramite sintomi, di cui i più drammatici sarebbero ricordi intrusivi fortemente angoscianti, incubi e flashback. Van der Kolk e Fisler (1995) realizzarono uno studio utilizzando uno strumento, il Traumatic Memory Inventory, dimostrando la natura frammentaria (dissociata) dei ricordi traumatici. Lo studio ha dimostrato che le tracce delle esperienze traumatiche inizialmente dissociate, in un secondo momento vengono recuperate sottoforma di frammenti sensoriali caratterizzati da una ridottissima componente linguistica. A mano a mano che aumenta la consapevolezza del soggetto, gli elementi sensoriali possono essere collocati in un racconto ed immagazzinati, come le esperienze ordinarie, nella memoria esplicita.
La dissociazione secondaria o peritraumatica, come la definivano Mamar ed i suoi collaboratori, (1944), avviene durante l’evento traumatico “tra l’io che osserva e l’io che esperisce”. Scrive Van de Kolk, avvalendosi anche dei lavori di altri studiosi:
“Se la dissociazione primaria riduce negli individui la consapevolezza della realtà dell’esperienza traumatica e permette loro di vivere temporaneamente come se niente fosse accaduto…, la dissociazione secondaria allontana gli individui dalle sensazioni e dalle emozioni legate al trauma, in pratica anestetizzandoli”.
Il più delle volte i soggetti coinvolti sono vittime di incesto, sopravvissuti ad incidenti automobilistici o soldati al fronte. Questi spesso riferivano alterazioni nel modo di percepire tempo, spazio e persone, fattori che conferivano irrealtà all’evento. Il tempo poteva essere vissuto come rallentato o accelerato. Raccontavano episodi di depersonalizzazione, visioni tunnel, di aver ‘abbandonato il corpo’ al momento del trauma, osservando l’esperienza traumatica ‘da spettatori’. Tentavano così di allontanare la sofferenza e lo stress ad esso legati, a riparo dalla piena consapevolezza dell’evento. Di questi aspetti si sono occupati Mamar ed i suoi collaboratori tramite uno strumento, il Peritraumatic Dissociative Experiences Questionnaire (PDEQ). Hanno dimostrato che più la dissociazione è stata forte durante l’esposizione allo stress, più è alta la probabilità di soddisfare i criteri del DPTS. Questo ed altri studi confermano l’ipotesi che la dissociazione peritraumatica possa essere un predittore significativo dello sviluppo del DPTS, e che i fattori associati a più alti livelli di dissociazione peritraumatica sono i seguenti: età minore, livelli elevati di esposizione, maggiore percezione soggettiva di una minaccia, minore adattamento psicologico generale, struttura dell’identità più debole, livelli più bassi di ambizione e prudenza, maggior locus di controllo esterno e maggior uso di reazioni di fuga/evitazione e coping centrato sulle emozioni. Conclude Van de Kolk:
“questi dati suggeriscono che gli individui più vulnerabili alla dissociazione peritraumatica sono coloro con minore esperienza di lavoro, con strutture della personalità più vulnerabili, che fanno più affidamento sul mondo esterno per il loro senso di sicurezza e fanno un uso maggiore di strategie di coping non adattive”.
La dissociazione terziaria consiste nello sviluppo di stati dell’io distinti, nei quali il soggetto può dare spazio all’esperienza traumatica, come ad esempio i frammenti di identità dissociata multipla tipici del Disturbo Dissociato dell’Identità. Mentre alcuni di questi alter possono continuare ad eseguire, inconsapevolmente, funzioni ordinarie di vita quotidiana, altri sono spesso portatori di dolore, paura o rabbia perché a conoscenza dei traumi, in genere abusi sessuali, fisici e psicologici, subiti in forma cronica e continuativa fin dalla tenera età. È stato osservato, inoltre, che una volta che il soggetto ha ‘imparato’ a dissociarsi di fronte ad eventi traumatici, tende a continuare a farlo nelle situazioni di stress successive.
Janet riteneva in tal proposito che la dissociazione come strategia per fronteggiare lo stress a lungo termine può rivelarsi priva di valore adattivo e che i soggetti che continuano a dissociarsi di fronte allo stress divengono emotivamente repressi. Scriveva:
“In molti soggetti ho dovuto riconoscere il ruolo giocato da uno o più eventi della loro vita passata. Questi eventi, che erano stati accompagnati da emozione violenta e dalla distruzione del sistema psicologico, avevano lasciato delle tracce. Il ricordo di questi eventi assorbiva una gran quantità di energia e aveva la sua parte nel persistente indebolimento”.
Egli riteneva anche, come ho già accennato, che gli sforzi per mantenere i ricordi traumatici frammentati fuori dal controllo cosciente catalizzassero l’energia psichica, cosa che interferiva con la capacità di impegnarsi in attività che richiedono concentrazione e creatività.
Una dissociazione iterata, dunque, può interferire con l’elaborazione dell’informazione, con l’esplorazione di forme di coping e di problem-solving e con l’adattamento generale, correndo il pericolo di rafforzare nei soggetti il loro atteggiamento sociale passivo ed impotente.
L’elaborazione dell’informazione
Van del Kolk ritiene che il nucleo essenziale del Disturbo Post-Traumatico da Stress possa individuarsi nell’insuccesso nell’elaborazione dell’informazione a livello simbolico, fondamentale per una corretta classificazione ed integrazione del vissuto traumatico con le altre esperienze. Dunque, siamo nel campo della memoria.
Janet fu il primo a osservare questo aspetto, confermato successivamente da un secolo di dati clinici e sperimentali. Aveva osservato, scrive lo stesso autore, che i suoi pazienti erano “incapaci di fornire il resoconto che chiamiamo memoria narrativa, eppure continuano a dover far fronte alla situazione difficile”. Suggeriva, inoltre, che un’emozione violenta (intensa reattività)potesseinterferire con il normale processo di elaborazione dell’informazione e con la sua fissazione nella memoria narrativa (esplicita).
Scrive Van der Kolk:
“Secondo Janet, la memoria dei traumi consiste in immagini, sensazioni, stati affettivi e comportamenti che si presentano invariabili e inalterabili nel tempo. Janet ha ipotizzato che questi ricordi siano fortemente dipendenti dallo stato mentale e che non possano essere evocati a piacere. Inoltre, questi ricordi non sono condensati in forma tale da soddisfare le aspettative sociali. Al contrario, la memoria narrativa (esplicita) è semantica e simbolica, è sociale e adattata alle esigenze di chi narra e di chi ascolta, e può espandersi o contrarsi a seconda delle necessità di natura sociale”.
Dagli scritti degli autori che si sono occupati del trauma, come Janet inizialmente, in seguito Glinker e Spiegel (1945), Kardiner (1941), Terr (1993), emerge che i ricordi traumatici siano qualitativamente differenti rispetto a quelli ordinari poiché gli elementi emotivi e percettivi sono più pronunciati rispetto alle componenti dichiarative. Da qui si è generata l’idea che possano essere codificati in modo diverso rispetto a quelli ordinari, in modo particolare nei bambini, che hanno minori capacità mentali per elaborare narrazioni coerenti. Secondo Janet l’individuo traumatizzato risulta “incapace di costruire quel racconto che chiamiamo memoria narrativa”. Da ciò si originerebbe la fobia della memoria e quindi il ricorso alla dissociazione.
Van der Kolk si sofferma sulla stabilità e l’accuratezza nei contenuti, ma anche sulla specificità dei ricordi di eventi traumatici. Numerosi studi, effettuati su soggetti testimoni di un omicidio, o su ricordi relativi ad eventi di risonanza mondiale come l’assassinio di Kennedy o l’esplosione della navicella spaziale Challenger (Yuille e Cutshall) hanno dimostrato come la valenza emotiva di un’esperienza incida sull’accuratezza e sulla stabilità della memoria. Per quanto riguarda la stabilità del ricordo, anche il DSM-IV riconosce che le esperienze di eventi terrificanti possono portare i soggetti a forme esasperate di ricordo o di oblio, o alla combinazione di entrambi i fenomeni. Scrive Van der Kolk:
“Se da un lato le esperienze familiari e prevedibili sembrano essere assimilate facilmente dagli individui e le memorie relative agli eventi ordinari perdono chiarezza nel tempo, alcuni aspetti degli eventi traumatici sembrano invece fissarsi nella mente, resistendo inalterati allo scorrere del tempo o all’intervento modificatore di esperienze successive”.
L’autore, per esempio, ha condotto una ricerca sugli incubi post-traumatici nei quali i soggetti hanno dichiarato di aver sognato le stesse scene traumatiche per un periodo di quindici anni.
Van der Kolk e Fisler (1995) hanno realizzato uno studio per documentare se ed in che modo i ricordi delle esperienze traumatiche siano richiamate alla mente in modo diverso rispetto ai ricordi significativi per l’individuo, ma non traumatici. A tal fine hanno progettato e verificato uno strumento, il già citato Traumatic Memory Inventory (TIM), che consiste in un’intervista composta da diversi tipi di domande su esperienze traumatiche e non, indagando anche la componente percettiva di queste. Da tale studio è emerso che, mentre gli aspetti percettivi di situazioni non traumatiche vengono integrati automaticamente nella coscienza insieme all’esperienza in un racconto personale, in situazioni traumatiche le sensazioni somatoestesiche (visive, olfattive, affettive, uditive, cinestesiche), almeno inizialmente, diventano l’unica traccia del ricordo. I soggetti, infatti, riferivano che inizialmente non avevano ricordi narrativi dell’evento, ma solo flashback vividi e dettagliati o esperienze sensoriali, pur essendo consapevoli del trauma, mentre altri dichiaravano di non averlo ricordato se non in un secondo momento. Cinque soggetti, che riferivano abusi subiti da bambini, non riuscivano ancora a raccontare per intero l’accaduto. Conclude Van der Kolk, d’accordo con le tesi di Janet:
“La nostra ricerca conferma l’idea che l’essenza di una memoria traumatica consista nell’essere dissociata e nel venire memorizzata inizialmente come frammento sensoriale privo di componenti linguistiche”.
Il punto di vista psicobiologico
Dunque, le memorie traumatiche dei soggetti affetti dal DPTS sembrano non avere alcuna componente verbale (esplicita). Pur essendo organizzate a un livello implicito o percettivo, non sono accompagnate da alcun racconto relativo all’esperienza.
Ciò determina il cosiddetto terrore muto che genera nei soggetti uno stato di continua allerta, alterando la capacità di interpretare gli stimoli. Stimoli di bassa intensità finiscono per attivare ricordi intrusivi del trauma e per determinare una iperreattività generalizzata ed una conseguente difficoltà nella discriminazione dello stimolo. Già Kardiner (1941) aveva notato che i malati di nevrosi traumatica manifestavano ipervigilanza e reattività eccessive e durature nei confronti di minacce ambientali. Come ho già scritto in precedenza, per lo psichiatra statunitense il nucleo della nevrosi è una fisionevrosi. Egli affermava:
“Questi pazienti non sono in grado si sopportare una pacca sulla spalla data repentinamente, non sono in grado di tollerare di fare un passo falso o di inciampare. Dal punto di vista fisiologico si manifesta un abbassamento della soglia della stimolazione e dal punto di vista psicologico uno stato di sollecitudine a reazioni di spavento”.
I soggetti affetti da DPTS, scrive Van der Kolk, non riuscendo a interpretare cognitivamente alcuni ricordi, arrivano a sviluppare sintomi di iperreattività fisiologica non soltanto nei confronti di stimoli che effettivamente li riportano ai vissuti traumatici, ma anche nei confronti di stimoli esterni non sufficientemente condizionanti. E, se il disturbo si cronicizza, iniziano a soffrire di sensibilità intorpidita nei confronti dell’ambiente, intercalata da iperreattività intermittente, in risposta a stimoli esterni o interni (ricordo). Viene a perdersi così quella che è la funzione di segnalazione delle emozioni, che permetterebbe al soggetto di intraprendere azioni adattive.
Studi recenti di symptom provocation neuroimging (mappatura neuronale su provocazione dello stimolo) hanno cercato di mostrare gli aspetti psicobiologici di tali fenomeni. È noto che l’emisfero sinistro sia specializzato nell’analisi cognitiva e nella produzione linguistica, mentre l’emisfero destro nella percezioni e nell’espressione di emozioni, in particolare di quelle negative. Van der Kolk riporta uno studio, al quale ha collaborato, in cui venivano raccolte testimonianze da pazienti affetti da DPTS, che poi venivano loro rilette. Quando queste provocavano forti risposte autonome e flashback, i soggetti venivano sottoposti alla PET (Tomografia ad Emissione di Positroni).Nel corso di tale provocazione di ricordi traumatici, si verificava una diminuzione nell’attivazione dell’area di Broca, la parte del cervello più coinvolta nell’elaborazione linguistica dell’esperienza soggettiva e, contemporaneamente, un significativo aumento di attività in quelle aree dell’emisfero destro che si ritiene siano coinvolte nell’elaborazione delle emozioni intense e delle immagini visive.
Di tutte le aree del SNC, sembra che l’amigdala sia quella principalmente coinvolta nella valutazione del significato emotivo degli stimoli afferenti (LeDoux). Durante l’esposizione al racconto i soggetti mostravano un’aumentata attività solo nell’emisfero destro, proprio nelle aree del sistema limbico collegate all’amigdala. In particolare l’amigdala stessa, la corteccia insulare, la corteccia orbito-frontale posteriore, la corteccia anteriore del cingolo, la corteccia temporale anteriore. Dunque, una marcata lateralizzazione dell’emisfero destro, mentre l’area di Broca si ‘spegneva’ (mostrava una diminuzione dell’utilizzo di ossigeno durante l’esposizione a fattori che rievocavano il trauma). Si evidenziava, inoltre, un aumento dell’attività della corteccia visiva destra, che rispecchiava i flashback riferiti dai pazienti e che mostrava come il cervello stesse ‘vivendo’ l’esperienza anche tramite percezioni visive. Conclude Van der Kolk:
“Crediamo che ciò si rifletta nel ‘terrore muto’ provato da questi pazienti, e nella loro tendenza a provare emozioni sottoforma di stati fisici, piuttosto che come esperienze codificate verbalmente. Questi risultati suggeriscono che le difficoltà incontrate dai pazienti affetti da DPTS nel tradurre a parole le proprie sensazioni sono legate a reali mutamenti dell’attività cerebrale”
Van der Kolk cita anche tre studi condotti da tre differenti laboratori che dimostrano che nei soggetti affetti da DPTS si rileva una diminuzione del volume dell’ippocampo rispetto ai gruppi di controllo.
Il sistema ippocampale, anatomicamente adiacente all’amigdala, si ritiene responsabile della valutazione, della classificazione e dell’immagazzinamento degli stimoli afferenti favorendo il collegamento tra di essi nel tempo e nello spazio, ed in relazione alle informazioni immagazzinate in precedenza. Diverse ricerche hanno dimostrato che un calo del funzionamento ippocampale provocherebbe disinibizione comportamentale e iperreattività agli stimoli ambientali.
Queste ed altre ricerche sembrano confermare l’intuizione di Kardiner secondo cui la nevrosi traumatica è correlata con alcuni aspetti della fisiologia, supportandola con una base scientifica. Ad esempio, Bremner ed i suoi collaboratori (1995) hanno dimostrato che i reduci dalla guerra del Vietnam affetti da DPTS, a differenza dei loro commilitoni che non presentavano tali sintomatologie, mostravano una riduzione del volume ippocampale dell’8%. Stein e collaboratori (1994), invece, si occuparono di donne che in età infantile avevano subito ripetuti abusi sessuali, affette de DPTS, nelle quali constatarono una riduzione del volume dell’ippocampo del 7%. Gurvitz, Shenton e Pitman (1995) constatarono che i veterani del Vietnam maggiormente esposti al combattimento, affetti da DPTS, mostravano una perdita media del 26% nell’ippocampo sinistro, del 22% nel destro. Inoltre Bremner ed i suoi collaboratori (1995) somministrarono un test di memoria verbale ai veterani, avendo risultati peggiori del 40% rispetto a soggetti di età e livello d’istruzione loro compatibili. Si tratta di studi molto interessanti, anche se, suggerisce Van der Kolk, vi possono essere diverse ragioni per spiegare questo fenomeno, tra cui la possibilità che i soggetti con un ippocampo più piccolo siano i più vulnerabili allo sviluppo del DPTS.
Le ricerche fin’ora citate sembrano avvalorare l’ipotesi di LeDoux (1992) il quale, sulla base di studi condotti sugli animali, ha dedotto che livelli molto elevati di attivazione dell’amigdala, provocati da un’intensa stimolazione affettiva, possono inibire un’adeguata valutazione e classificazione dell’esperienza (ippocampo). Per l’autore l’informazione che entra nel SNC tramite gli organi di senso passerebbe per il talamo il quale, avviando due percorsi differenti, invierebbe questi contenuti ‘grezzi’ sia all’amigdala sia alla corteccia prefrontale per ulteriori valutazioni. L’amigdala si occuperebbe di attribuirvi una valenza emotiva, per poi anch’essa inviare l’informazione alle aree cerebrali. L’informazione inviata dal talamo giungerebbe all’amigdala prima di passare per la neocorteccia, per cui LeDoux suggerisce che questo primo input ‘prepari’ l’amigdala all’informazione successiva che proverrebbe dalla corteccia. Dunque, la valutazione emotiva dell’input sensoriale precederebbe l’esperienza emotiva consapevole. Da ciò diviene che i soggetti sottoposti ad un forte stimolo possano attivarsi ‘per via ormonale’ reagendo in maniera inconsapevole, sulla base di frammenti di informazione piuttosto che sulla piena percezione di oggetti ed eventi. Seppur incompleta e frammentaria LeDoux definisce l’emozione stessa una forma di memoria.
Dunque, continua Van der Kolk,
“Una volta che l’amigdala ha assegnato una valenza emotiva all’input sensoriale, passa questa valutazione alle altre strutture cerebrali, incluso l’ippocampo, il cui scopo è quello di iniziare a organizzare questa informazione e a integrarla con le informazioni preesistenti su input sensoriali simili… L’intensità di attivazione dell’ippocampo dipende dall’intensità dell’input proveniente dall’amigdala: quanto maggiore è la valenza assegnata all’amigdala, tanto più intensamente l’input sarà registrato, e tanto più la memoria verrà conservata. Questa interazione ha però una funzione a forma di U rovesciata: negli animali, alti livelli di stimolazione dell’amigdala interferiscono con il funzionamento dell’ippocampo”.
Si può supporre che l’esperienza memorizzata in tal modo, archiviata in maniera frammentaria, venga depositata e, in seguito, recuperata sotto forma di immagini isolate, sensazioni fisiche, odori e suoni percepiti come estranei, separati dalle altre esperienze di vita. Dunque,
“poiché l’ippocampo non ha potuto svolgere la sua funzione abituale di supporto alla contestualizzazione nel tempo e nello spazio dell’informazione in ingresso, questi frammenti continuano a condurre un’esistenza isolata. I ricordi dei traumi sono senza tempo ed estranei all’ego”.
4 – FREUD: SEDUZIONE E FANTASIA DEL TRAUMA
I sintomi divengono intellegibili solo se ricondotti
a esperienze che abbiano un effetto ‘traumatico’. freud
Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, fu anche colui che pose le basi per le successive ricerche sul trauma. Egli, nel corso dei suoi studi, si barcamenò tra due punti di vista opposti che possono essere racchiusi in una domanda: il trauma, che riteneva fosse soltanto di natura sessuale, viene perpetrato dall’esterno, oppure viene elaborato dalla fantasia dei soggetti? Elaborò così rispettivamente le teorie della seduzione e, successivamente, della fantasia di seduzione.
Nel 1885 Freud, allora professore di neuropatologia a Parigi, si recò in visita al Salpêtrière da Charcot ed assisté con molto interesse alle sue famose ‘lezioni del martedì’.In lui riconobbe, scrive lo stesso, il primo interprete dell’isteria.
Charcot riteneva, tuttavia, che l’isteria fosse da considerare come una forma di degenerazione organica, di origine ereditaria, del sistema nervoso e che tutti gli altri fattori eziologici avessero solo il ruolo di motivi occasionali. Inoltre il lavoro di Charcot si basava meramente sull’osservazione e sulla classificazione dei sintomi isterici, mentre Freud era alla ricerca dell’origine di tali sintomi, che riteneva non potesse essere rintracciata a livello organico, ma psichico. Anche in riferimento alla suggestione,Freud scrisse della sua resistenza nell’accettare che la suggestione fosse la spiegazione di tutto, come lo era per Charcot, senza che essa stessa fosse a sua volta suscettibile di spiegazione.
Ed è sulla ricerca di spiegazioni che si concentrò quando, nel 1886, aprì un gabinetto privato per la cura delle malattie nervose. Fu decisivo in questo senso l’incontro con Breuer con il quale utilizzò l’ipnosi non soltanto per inibire i sintomi delle pazienti, affette da isteria, ma per scoprire la motivazione e il significato ad essi sottesi. L’intuizione di Breuer consisteva nel ritenere che il sintomo isterico venisse alimentato da energie psichiche, che normalmente venivano utilizzate in modo diverso, la cui origine fosse un ingorgo affettivo. La cura consisteva nell’abreazione di queste energie (metodo catartico).
Un incidente di percorso, o quello che apparentemente sembrò tale, la presenza di trasporto sessuale da parte di una paziente, la ben nota Anna O., nei suoi confronti, lo portò tuttavia ad interrompere le ricerche che gli avrebbero dato la chiave di accesso al regno delle madri, metafora di derivazione faustiana utilizzata da Freud per alludere alla possibilità, alla quale Breuer rinunciò, di approdare alla scoperta dell’inconscio, del carattere sessuale dell’eziologia dell’isteria e, successivamente, del transfert.
Per Freud alla base dei sintomi isterici delle sue pazienti vi era una emozione dolorosa, causata da uno stimolo traumatico,rimasta in uno stato di strangolamento perché allontanata dalla sfera della coscienza (dissociata) e relegata in quello che egli chiamò secondo gruppo psichico o complesso di rappresentazioni subconsce. Insieme a Breuer, riprendendo il concetto di dissociazione già elaborato da Janet, scrisse:
“Ora, quanto più abbiamo continuato ad occuparci di questo fenomeno, tanto più sicura è divenuta la nostra convinzione che quella scissione della coscienza così sorprendente nei noti casi classici di double conscience, esiste in stato rudimentale in ogni isteria, e che la tendenza a tale dissociazione e quindi al manifestarsi di stati anormali della coscienza, che chiameremo congiuntamente “ipnoidi”, è il fenomeno basilare di tale nevrosi”.
Tale situazione psichica condurrebbe il soggetto, se sottoposto ad un nuovo stimolo, affine al primo a livello di risonanza emotiva, a rivivere le emozioni traumatiche del passato. A sviluppare, quindi, una sorta di vulnerabilità al trauma, che poteva trovare soluzione soltanto tornando con la memoria alla situazione traumatica originaria, ed all’emozione ad essa legata. Dunque, affermavano Freud e Breuer in tal senso,
“L’isterico soffrirebbe per lo più di reminiscenze”.
In seguito Freud si rese conto che, in tutti i casi di isteria da lui analizzati,
“a fornire un affetto penoso di natura perfettamente identica a quello aderente alla rappresentazione ossessiva era stata la vita sessuale”
del paziente. La prima teoria che elaborò Freud, alla quale le esperienze con l’ipnosi e, successivamente, con le libere associazioni e con l’analisi del transfert lo avevano condotto, era basata dunque sull’esistenza di traumi sessuali che concretamente costituivano la causa patogena di ogni sintomo nevrotico. Si tratta della teoria della seduzione secondo la quale la nevrosi isterica si originerebbe da un’esperienza di ‘seduzione’ perpetrata da un adulto su un soggetto in età infantile. Freud scriveva:
“Io affermo … che alla base di ogni caso di isteria vi sono uno o più episodi di esperienza sessuale precoce della prima infanzia, episodi che il lavoro analitico è in grado di rievocare nonostante i decenni trascorsi. Ed è questa una scoperta che io considero importantissima, la scoperta del caput Nili in neuropatologia”.
Nel 1987, tuttavia, Freud fece un’altra scoperta che rivoluzionò l’intera sua teoria sul trauma, spostando l’attenzione dal mondo esterno alla realtà psichica. Si accorse che gran parte dei racconti di seduzione subiti dai suoi pazienti non erano che fantasie. Nel 1898, infatti, scriveva a Fliess:
“dapprima definivo l’eziologia – della nevrosi – in modo troppo ristretto; la parte di fantasia in essa è ben più grande di quanto avessi pensato all’inizio”.
Ed in seguito, nell’Autobiografia:
“mi vidi … costretto a riconoscere che tali scene di seduzione non erano mai avvenute in realtà, ma erano solo fantasie create dall’immaginazione dei miei pazienti”.
Dunque, non sarebbero i ricordi effettivi del trauma infantile a scindersi dalla coscienza, ma sarebbero i desideri inaccettabili del fanciullo, a sfondo sessuale ed aggressivo, a minacciare l’io ed a far in modo che questo attivi le sue difese per allontanarli dalla coscienza. Il materiale patogeno non proverrebbe quindi dall’esterno, ma dall’interno, ed i bambini sarebbero dominati da passioni sessuali potenti, da quelle spinte che in seguito Freud definì pulsioni. Egli, da allora, cominciò a concentrarsi sulle pulsioni quali forze propulsive dello sviluppo della personalità e, nel campo della psicopatologia, di distorsione di tale sviluppo. Sosteneva che i disturbi della memoria e le riattualizzazioni che venivano riscontrati nell’isteria non scaturissero dell’incapacità del soggetto di integrare nuovi contenuti esperienziali in schemi di significato preesistenti, ma che emergessero dal fatto che idee e impulsi conflittuali aggressivi e sessuali, che ruotano attorno al complesso di Edipo, fossero stati repressi. Da allora la psichiatria, seguendo le sue orme, si orientò verso la teoria intrapsichica, concentrandosi sulla fantasia ed ignorando la realtà concreta dell’esperienza traumatica.
Secondo Masson, tuttavia, le riflessioni di Freud non rappresentano l’abbandono della teoria della seduzione, ma l’espressione del dubbio che lo condusse a comprendere che il trauma oggettivo, senza la partecipazione della fantasia inconscia e dell’angoscia ad essa associata, non potesse dare origine alla nevrosi. Non sarebbe il trauma in sé a generare la sintomatologia isterica, ma il significato che ad esso viene attribuito dall’individuo.
Vero è che più volte, soprattutto durante ed in seguito al primo conflitto mondiale, lo stesso Freud si espresse alternativamente in favore dell’uno o dell’altro modello teorico, quello della ‘situazione insopportabile’ e quello dell’’impulso inaccettabile’,senza però pensare ad una possibile integrazione tra i due.
In Introduzione alla psicoanalisi (1915-17) Freud scriveva:
“Le nevrosi traumatiche offrono chiari indizi che alla loro base vi è una fissazione al momento dell’incidente traumatico. Nei loro sogni questi ammalati ripetono regolarmente la situazione traumatica … si viene a scoprire che l’attacco corrisponde a una trasposizione completa della situazione anzidetta. È come se questi ammalati non fossero venuti a capo della situazione traumatica”.
Ed in Al di là del principio del piacere (1920) sembrava sulla strada verso la conciliazione delle due concezioni. Scriveva:
“Il quadro sintomatico presentato dalla nevrosi traumatica, si avvicina a quello dell’isteria … ma, di regola, lo supera per evidenti segni di sofferenza soggettiva … e per un evidente indebolimento globale e un perturbamento delle facoltà mentali”.
Egli rimase colpito dal fatto che i pazienti affetti da nevrosi traumatiche soffrissero spesso di mancanza di preoccupazione conscia per i ricordi degli incidenti da loro vissuti e che, scrive lui stesso, “anzi, essi cercano piuttosto di non pensarci”, senza però mettere in relazione questa osservazione con il principio di la belle indifférence negli isterici.
Va sottolineato, tuttavia, che l’allora clima intellettuale e politico mostrava difficoltà ad accettare che vi fossero così tanti episodi di seduzione sessuale perpetrati nei confronti dei bambini. Scrive la Hermann, rispetto alle ricerche di Freud:
“La sue scoperte sullo sfruttamento sessuale dell’infanzia alla base dell’isteria superarono i limiti estremi della credibilità sociale e lo condussero a una posizione di totale ostracismo nella sua professione. La pubblicazione de Etiologia dell’isteria, da cui si aspettava la gloria, ebbe un’accoglienza glaciale”.
Scriveva a Fliess in quel periodo:
“Sono isolato in modo tale che tu puoi esserne felice; è stata passata parola di abbandonarmi e intorno a me si sta formando il vuoto’.
Ad ulteriore dimostrazione della difficoltà di affrontare il tema dell’abuso nella società dell’epoca, fu la reazione della comunità scientifica e dello stesso Freud alla presentazione da parte di Sandor Ferenczi, nel 1932, pochi mesi prima della sua morte, dell’articolo La confusione delle lingue tra l’adulto e il bambino: il linguaggio della tenerezza e della passione al Congresso di Wiesbaden, organizzato dall’Associazione Psicoanalitica Internazionale. Tale relazione, che Freud stesso gli aveva sconsigliato di leggere, segnò la rottura dell’amicizia durata una vita tra i due psicoanalisti. In questa occasione Ferenczi riprese il tema dell’eziologia traumatica delle nevrosi, che con l’abbandono di Freud della teoria della seduzione era stato messo da parte dagli psicoanalisti dell’epoca. Pose l’accento sul senso di impotenza e di terrore dei bambini che, avvicinati da adulti con l’intento di ottenere gratificazioni sessuali, vengono sfruttati nella loro vulnerabilità e nel loro bisogno d’affetto. Introdusse, tra l’altro, un concetto fondamentale: la modalità di difesa principale messa in atto dal bambino traumatizzato è l’identificazione con l’aggressore. La relazione fu accolta dalla comunità psicoanalitica con un certo imbarazzo, lo dimostra il fatto che il contributo di Ferenczi venne pubblicato in inglese soltanto nel 1949, ben diciassette anni dopo la sua morte.
Dunque, inizialmente Freud aveva intuito la
gravità dell’aver vissuto nell’infanzia un’esperienza di seduzione da parte di
un adulto; in un secondo momento, aveva preso consapevolezza dell’importanza
della fantasia del soggetto, e quindi della sua realtà psichica. Oggi si
potrebbe tentare di rispondere alla domanda iniziale sulla validità dell’una o
dell’altra teoria, proponendo l’integrazione tra le due, parlando di esperienza
traumatica in relazione al vissuto traumatico del soggetto rispetto ad un
determinato evento o ad una serie di eventi. Freud stesso, nel 1897,
sottolineava l’inscindibilità dell’evento
e dell’affetto ad esso legato. Egli
scriveva: “È impossibile distinguere tra
verità e finzione investita d’affetto”, laddove per finzione intendeva la fantasia che, in quanto realtà psichica,
è reale poiché possiede una esistenza immaginaria, pur non facendo parte della
cosiddetta sfera oggettiva.
5 – JUNG E IL COMPLESSO A TONALITA’ AFFETTIVA
Il fondamento essenziale della nostra personalità è l’affettività…Il tono affettivo è uno stato affettivo che è accompagnato da innervazioni somatiche. Jung
Carl Gustav Jung si discostò da Freud per molte delle sue teorizzazioni, pur concordando con lui per quanto riguarda la ricerca del significato inconscio del trauma e quindi per l’attenzione alla dimensione intrapsichica dell’esperienza umana. Anche per Jung, infatti, la fantasia del trauma assume una grande importanza, ma si discosta da Freud per quanto riguarda il contenuto della stessa. Jung si rese pesto conto che alla base delle ‘emozioni strangolate’ di cui parlava Freud non vi è sempre un complesso erotico (il complessi di Edipo), ma si possono osservare molti altri complessi. Elaborò, dunque, una concezione pluralistica della psiche la quale, proprio per questa sua natura, in situazioni traumatiche è soggetta a dissociazione.
Il complesso a tonalità affettiva
Pensiero e azione, sensazioni, rappresentazioni e sentimenti, tutti gli elementi della vita psichica, ruotano intorno all’affettività, scrive Jung nel 1907 introducendo il capitolo sul complesso a tonalità affettiva. Egli utilizza una metafora per descrivere la realtà psichica:
“Si può paragonare … alla musica wagneriana. Il Leitmotiv definisce (in certo modo come tono affettivo) un complesso di rappresentazioni importante per la struttura drammatica (Walhalla, patto ecc.). Ogni volta che l’azione o la parola stimolano l’uno o l’altro complesso, suona il Leitmotiv appropriato, in una delle sue varianti. Esattamente così succede nella vita psichica abituale: i Leitmotiv sono i toni affettivi dei nostri complessi, le nostre azioni e i nostri stati d’animo sono variazioni dei Leitmotiv”
Sembra opportuno, tuttavia, fare un passo indietro. Per molti anni Jung si dedicò a ricerche sulle associazioni verbali. Egli somministrava ad alcuni soggetti una certa quantità di parole-stimolo alle quali questi dovevano rispondere con la prima parola che gli veniva in mente. Nonostante fosse esplicita la loro intenzione di reagire in modo giusto e rapido, si determinavano quelli che inizialmente vennero registrati come errori di reazione. Successivamente, però, Jung si rese conto che l’’errore’, come ad esempio una formulazione bizzarra della reazione, Ia perseverazione nel riferirsi ad un termine specifico, il prolungamento del tempo di reazione, un’eventuale assenza di risposta, la dimenticanza, nella seconda somministrazione, delle risposte precedenti…, trovava la sua eziologia a livello intrapsichico, ed in particolare in un complesso di rappresentazioni di vario genere, tenuto insieme da un determinato tono emotivo. Riportando i risultati di queste ricerche alla vita quotidiana, ogni qualvolta una situazione-stimolo va a toccare un complesso del soggetto, si attiverebbe il tono affettivo ad esso appartenente, il Leitmotiv appropriato, in una delle sue varianti. Lo scriveva anche Freud in Psicopatologia della vita quotidiana chenei disturbi apparentemente casuali dell’agire, come lapsus verbali, lapsus di lettura, dimenticanze…, sono in azione dei pensieri complessuali.E nell’Interpretazione dei sogni dimostrava la presenza di influenze simili nei sogni.
Dunque, il complesso sembra comportarsi in maniera autonoma rispetto alle intenzioni dell’individuo, un’autonomia che si fonda sul suo forte tono emotivo, sull’affetto, una grandezza assai indipendente rispetto alle altre parti psichiche, in grado di mettere a repentaglio la stabilità dell’Io.
Nel 1934 Jung tenta di dare una definizione scientifica del complesso a tonalità affettiva e scrive:
“È l’immagine di una determinata situazione psichica caratterizzata in senso vivacemente emotivo che si dimostra inoltre incompatibile con l’abituale condizione o atteggiamento della coscienza. Questa immagine possiede una forte compattezza interna, ha una sua propria completezza e dispone inoltre di un grado relativamente alto di autonomia, il che significa che è sottoposta soltanto in misura limitata alle disposizioni della coscienza e si comporta perciò, nell’ambito della coscienza, come un corpus alienum animato”.
È importante sottolineare come Jung tenga presente anche l’aspetto fisiologico (sintomi), oltre che quello psichico (rappresentazioni), entrambi legati al fattore emotivo del complesso. Egli scrive che “L’accentuazione affettiva del complesso è … da rilevare sul piano psicofisico”, ed è questa che permette l’autonomia del complesso secondario da quello che Jung definisce complesso dell’Io. Il complesso dell’Io, infatti, è “un complesso di rappresentazioni, tenuto insieme e fissato dalle sensazioni ‘cinestetiche’, e … le sue intenzioni ovvero innervazioni non si dimostrano per ciò stesso più forti di quelle del complesso secondario (sono anzi da queste ultime disturbate)”. Egli quindi mette sullo stesso piano l’Io ed il complesso secondario autonomo; ritiene infatti che anche il tono emotivo di quest’ultimo si fonda su sensazioni ‘cinestetiche’, come lo è per l’Io, e che anche l’Io, alla stregua degli altri complessi, possa essere rimosso o scisso, come nei deliri isterici o in altre forme di scissione della personalità. Egli scrive:
“Il complesso dell’Io è, per così dire, non più l’intera persona, ma accanto ad esso esiste anche un altro essere, che vive nel modo che gli è proprio e così ostacola e disturba l’evoluzione del complesso dell’Io: le azioni sintomatiche esigono infatti molto spesso tempo ed energie, che vanno perdute per il complesso dell’Io. Possiamo facilmente immaginare quanto la psiche venga disturbata, quando il complesso cresce d’intensità. … per esempio … (nel)l’innamoramento”.
L’esempio dell’innamoramentosottolinea il fatto che Jung considera i complessi come normali fenomeni vitali, appartenenti alla costituzione psichica dell’individuo e che formano la struttura della psiche inconscia. Tuttavia, scrive: “La coscienza è sempre persuasa che i complessi sono una sconvenienza, e quindi vanno eliminati in qualche modo”, pur rappresentando essi una ricchezza per la psiche nella sua interezza e, insieme alla coscienza, determinandone la sua dinamicità. In tal senso Jung, facendo riferimento ad una frase di Freud, afferma che la via regia per l’inconscio non è nel sogno, ma nel complesso, che è la causa di sogni e sintomi.
Scrive Jung:
“I complessi sono … le unità viventi della psiche inconscia, di cui possiamo conoscere esistenza e natura soltanto loro tramite”.
Egli descrive il complesso come costituito da un elemento nucleare, per lo più inconscio, e da associazioni secondarie che si costellano intorno ad esso. L’elemento centrale, caratterizzato dal cosiddetto tono emotivo, dalla tonalità affettiva, è formato da una componente determinata dall’esperienza (relazione con l’ambiente) e da una componente determinata dalla disposizione innata. Intorno ad esso si costellano contenuti psichici (rappresentazioni) eccitati, scelti in relazione alla qualità del nucleo.
Ogni complesso fa riferimento ad una particolare situazione psichica, incompatibile con l’abituale atteggiamento cosciente poiché trova la sua origine in esperienze ed impressioni penose e spiacevoli.
“L’eziologia della loro origine è sovente un cosiddetto trauma, uno shock emotivo e simili, a causa del quale una parte della psiche si è distaccata”.
Il vissuto traumatico, il più delle volte, si origina da un conflitto morale tra parti psichiche consce ed inconsce, incompatibili tra di esse, che può condurre alla scissione, alla dissociazione nevrotica della personalità. La parte dissociata può manifestarsi attraverso lapsus linguae, atti mancati, accessi d’ira, fobie e sintomi di ogni genere, i cosiddetti dolori immaginari che, pur non avendo un fondamento organico,
“fanno male quanto i dolori legittimi, e … una fobia per la malattia non ha la minima tendenza a sparire anche se lo stesso malato, il suo medico e il linguaggio comune assicurano che essa non è nient’altro che un’immaginazione”.
Non a torto il complesso dell’Io teme gli altri complessi e, spesso, tenta di tranquillizzarsi convincendosi della loro inesistenza, o identificandoli con un diverso nome, compatibile con la sfera cosciente, “Come le Erinni erano chiamate, a titolo di precauzione e di propiziazione, Eumenidi, le benintenzionate”, scrive Jung.Essendo infatti l’Io inconsapevole, perché separato dai contenuti scissi, è continuamente a rischio, di identificazione col complesso e quindi di inflazione da parte di questo.
La Von Franz, interpretando magistralmente il pensiero di Jung, aggiunge un altro tassello alla sua descrizione. Si esprime con queste parole:
“Quando un complesso viene ‘spogliato’ dei contenuti a esso sovrapposti dalla vita personale dell’individuo, come avviene per esempio nel corso del lavoro analitico, che rende cosciente questo materiale conflittuale rimosso, il vero nucleo del complesso, il ‘punto nodale’ nell’inconscio collettivo, viene liberato dai contenuti dai quali era rimasto avvolto … in tal caso l’individuo si trova messo a confronto non più, per esempio con la propria madre ma con l’archetipo del ‘materno’, non con il singolo problema personale della realtà concreta di sua madre, ma con il problema umano universale, cioè impersonale, del rapporto di ogni uomo col fondo materno primordiale presente in lui”
Jung stesso, in una lettera al dott. Flournoy, scrive che è a Freud che
“va l’onore di aver scoperto il primo archetipo, il complesso di Edipo. Si tratta di un motivo di natura tanto mitologica quanto psicologica. Naturalmente si tratta di un singolo archetipo, cioè di quello che rappresenta la relazione tra figlio e genitori. Tuttavia … Vi è una quantità di situazioni tipiche, tutte espresse in precise forme strutturali innate”.
Si può quindi affermare che, nella visione junghiana, dietro (o dentro) ogni complesso esista un nucleo di significato che appartiene ad una realtà percepita come altra, perché inaccessibile alla coscienza, che è possibile soltanto circoscrivere e caratterizzare approssimativamente. È numinoso e, come se fosse un Dio, determina nel soggetto uno strato di profonda emozione (caratterizzato dal cosiddetto tono emotivo, dalla tonalità affettiva). Esso è l’archetipo.
Jung definì gli archetipi come dominanti dell’inconscio collettivo, ‘punti nodali’ forniti di una particolare carica energetica.Sulle orme di Janet, parlava di abbaissement du niveau mental, della riduzione dell’intensità di coscienza che permette la produzione di manifestazioni individuali di strutture archetipiche. L’archetipo in sé, come sappiamo, appartiene all’inconscio collettivo, e quindi è inconoscibile. L’interpretazione che se ne dà non sarà mai esaustiva ma, anzi, si baserà sul ‘come se…’. In sostanza, scrive Jung,
“si tratta … di circoscrivere e caratterizzare approssimativamente un ‘nucleo di significato’ inconscio. Il senso di questo nucleo non è mai stato né sarà mai cosciente”.
Esso, quindi, è numinoso poiché si manifesta come una realtà ‘altra’ rispetto a quella della coscienza, carica energeticamente ed affettivamente.
Ricostruendo la genesi di tali teorizzazioni, scrive:
“fu il frequente ricorso a forme associative e strutture arcaiche, che osserviamo nella schizofrenia, a darmi la prima idea di un inconscio formato non solo da contenuti di coscienza originari andati perduti – come invece affermava Freud – ma anche da uno strato in certo modo più profondo, dello stesso carattere universale dei motivi mitici che caratterizzano la fantasia umana in generale”.
Un esempio di fantasia archetipica: la donna che viveva sulla luna
Quando ancora era alle sue prime esperienze, Jung si imbatté in un caso molto grave e a rischio di suicidio di una ragazza di diciannove anni ricoverata a diciassette per sintomi catatonici ed allucinatori. La ragazza, all’età di quindici anni, aveva subito abusi da parte del fratello medico, che l’aveva condotta da Jung e successivamente da alcuni compagni di scuola. A sedici anni si era chiusa in sé stessa mantenendo un unico legame sentimentale con il cattivo cane dei vicini, che lei aveva cercato di ammansire. Jung guarì completamente la sua paziente la quale, dopo alcuni anni dal termine del trattamento, si sposò, ebbe dei figli e continuò a tenere al corrente del suo stato di salute Jung per trent’anni, rassicurandolo sulla possibilità di eventuali ricadute.
Durante il trattamento, invece, dopo periodi in cui riusciva a comunicare con Jung, ebbe due ricadute, legate a momenti particolari della terapia, che la portarono al ricovero in ospedale psichiatrico. Jung descrive le fantasie che la ragazza viveva nella sua psiche, il mito che la teneva prigioniera, ma che probabilmente la teneva in vita, nel seguente modo:
“Nel corso di parecchie settimane riuscii, molto gradualmente, a convincerla a parlare; dopo aver superato molte resistenze, mi disse che aveva vissuto sulla luna, e che questa era abitata, ma in un primo momento vi aveva visto solo uomini. Questi subito l’avevano presa con sé e l’avevano condotta in una abitazione ‘sublunare’ dove custodivano i loro bambini e le loro mogli, poiché sulle alte montagne della luna viveva un vampiro che rapiva e uccideva donne e bambini, ragion per cui gli abitanti della luna erano minacciati di estinzione: questo era il motivo della vita ‘sublunare’ della metà femminile della popolazione. La mia paziente si era decisa a fare qualcosa per gli abitanti della luna, e aveva progettato di distruggere il vampiro. Dopo lunghi preparativi, lo attese sulla piattaforma di una torre che era stata eretta a questo scopo, e dopo qualche notte alla fine vide il mostro che si approssimava da lungi, svolazzando, verso di lei, simile a un grande uccello nero. Prese allora un lungo coltello sacrificale e lo nascose sotto la veste, attendendo l’arrivo del vampiro. Improvvisamente questo le si parò dinanzi: aveva parecchie paia di ali, che coprivano il viso e il corpo, così che ella non poteva vedere altro che penne. Stupefatta, fu presa dalla curiosità di scoprire quale fosse realmente il suo aspetto, e gli si avvicinò, impugnando il coltello; e a un tratto le ali si apersero e le apparve un uomo di sovrumana bellezza. Questi la strinse nelle sue braccia alate come in una morsa d’acciaio, impedendole di brandire il coltello. D’altronde era talmente affascinata dallo sguardo del vampiro che non sarebbe stata capace di colpire. Egli poi la sollevò dal suolo e volò via con lei”.
La rivelazione a Jung del suo mito interiore permise alla paziente di riacquistare la parola ma, quando si rese conto che il fatto di aver comunicato i contenuti delle fantasie, del suo ‘mondo interno’, ‘lunare’, ad un abitante della terra avrebbe potuto impedire il suo ritorno sulla luna, ebbe la prima ricaduta. Due mesi dopo, pur opponendosi a questa conclusione, si rese conto che la sua vita sulla terra era inevitabile. Le precedenti apatia e mancanza di affetto lentamente venivano sostituite da una certa emotività e sensibilità, ma il timore del reinserimento nella vita normale e l’accettazione di un’esistenza sociale le provocarono la seconda ricaduta, seppur con una diagnosi più lieve. Infine si rassegnò al suo destino. Iniziò a lavorare come infermiera in un sanatorio ma, agli approcci di un assistente medico, rispose con un colpo di rivoltella che ferì l’uomo leggermente. Già in precedenza, nell’ultima seduta, aveva consegnato a Jung la pistola che portava con sé dicendo:
‘L’avrei ammazzata, se mi avesse delusa!’. “Che cosa si può dire, – scrive Jung – per cercare di interpretare le sue fantasie? In conseguenza dell’incesto, che aveva dovuto subire da fanciulla, ella si sentiva umiliata agli occhi del mondo, ma innalzata nel regno della fantasia. Era stata trasportata in un regno mitico, poiché l’incesto è tradizionalmente una prerogativa dei re e degli dei. Come conseguenza, ne era derivata la sua completa alienazione dal mondo, quindi la psicosi. Era divenuta, per così dire, ‘extramondana’, e aveva perduto il contatto con l’umanità. Era precipitata in lontananze cosmiche, nello spazio siderale, dove si era imbattuta nel demonio alato. Come di regola in tali casi, ne aveva proiettata la figura su di me, durante il periodo del trattamento. Così, automaticamente, ero minacciato di morte, come chiunque altro avesse potuto indurla a ritornare alla normale condizione umana. Raccontandomi la sua storia in un certo senso aveva tradito il demonio, e si era legata ad un uomo terreno: dopo di che le era stato possibile ritornare alla vita e persino sposarsi. Da allora in poi presi a considerare i malati di mente in una luce diversa, poiché avevo finalmente capito la ricchezza e l’importanza della loro vita interiore”
Si potrebbe far risalire l’emozione della giovane di fronte alla bellezza del vampiro alle esperienze religiose, in cui avviene l’incontro con l’alterità, con il sacro che Jung in un altro passo definisce, riprendendo il termine da Rudolf Otto, numinosum, “un’essenza o energia dinamica non originata da alcun atto arbitrario della volontà”. In senso figurato, scriveva Otto, si tratta dell’effetto che il ‘gesto’ della divinità provoca in chi la osserva. È un’energia, continua Jung, che “afferra e domina il soggetto umano, che ne è sempre la vittima piuttosto che il creatore. Il numinosum, qualunque ne sia la causa, è una condizione del soggetto indipendente dalla sua volontà”.
Nel caso descritto da Jung, nella giovane donna era avvenuta quella che egli definisce una introversione libidica che avrebbe prodotto
“non solo, come nell’isteria, a una rinascita delle reminiscenze infantili, – come voleva Freud – ma anche a un allentamento degli strati storici dell’inconscio, da cui nascono bizzarre formazioni che solo eccezionalmente vengono alla luce”.
Si
tratta della capacità mitopoietica della psiche che, in questo caso, ha
elaborato un mondo alternativo a quello reale in cui vivere, facendosi rapire dalla
realtà archetipica e dalle sue lusinghe, ma anche dal suo aspetto persecutorio.
6 – IL VISSUTO PROFONDI DEL TRAUMA
E poi Sisifo vidi, che spasmi orrendi pativa
che con entrambe le mani spingeva un immane macigno.
Esso, facendo forza con ambe le mani ed i piedi su su fino alla vetta spingeva il macigno,
ma quando già superava la cima, lo cacciava indietro una forza.
Di nuovo al piano così rotolava l’orrendo macigno. E di nuovo in su lo spingeva e puntava;
e il sudore scorrea pei membri e via gli balzava dal capo la polvere. Omero
Esperienze intollerabili, quindi traumatiche, in un individuo non ancora in grado di elaborarle simbolicamente possono generare paure, angosce, sensi di colpa, vergogna, sensazioni di inadeguatezza, sintomi, limitarne lo sviluppo psichico e creativo, se non portarlo, in seguito, alla follia o al suicidio. E le difficoltà della vita, sia quelle potenzialmente traumatiche (vissuti di catastrofi naturali, di guerre) sia esperienze apparentemente ordinarie, possono rappresentare l’occasione per vivere nuove ri-traumatizzazioni e per tornare a difendersi da queste. Ma è soprattutto per difendersi da se stessi che il complesso traumatico si dissocia dal resto della psiche e si manifesta soltanto attraverso i sintomi e le personizzazioni che emergono da sogni e fantasie.
Molti autori hanno sottolineato quanto siano fondamentali per uno sviluppo armonico della personalità le cure genitoriali, in particolare quelle materne, e come esperienze negative o deficitarie a livello affettivo vissute nella primissima infanzia possano influenzare la vita dell’individuo a livello intrapsichico e nella relazione con il mondo esterno.
Nelle pagine seguenti vorrei provare a descrivere cosa accade nella psiche sana e nella psiche traumatizzata precocemente, raccogliendo le riflessioni di alcuni di questi autori ed integrandole con contributi freudiani e junghiani, avvalendomi dell’opera di sintesi operata da Donald Kalsched nel suo libro Il mondo interiore del trauma.
Winnicott: l’inadeguatezza delle cure materne e l’elaborazione del falso-Sé
Winnicott fu uno di coloro che sottolineò l’importanza di una buona relazione precoce madre-bambino per la crescita sana dell’individuo. Descrisse le modalità attraverso cui la relazione con l’oggetto emerge dall’esperienza di onnipotenza magica, che caratterizza i primi mesi di vita del bambino. Il bambino sin dalla nascita si trova a vivere una situazione indifferenziata con l’ambiente, rappresentato dalla madre, nei confronti della quale si crea una dipendenza assoluta. La madre dovrà avere una funzione di contenimento (holding) poiché, scrive lo stesso autore,
“In psicologia bisogna dire che il bambino cade a pezzi se non viene tenuto insieme e, in queste fasi, le cure fisiche sono cure psicologiche”.
Attraverso queste cure il soggetto pone le premesse per lo sviluppo della capacità di contenimento, fondamentale per affrontare le frustrazioni e per difendersi dalla disgregazione della personalità. È dalla capacità del caregiver di rispondere alla situazione di dipendenza, inizialmente totale, ma progressivamente sempre meno, che deriva la forza o la debolezza dell’Io del bambino, e successivamente dell’adulto. La madre deve essere sufficientemente buona, contenitiva e fornire un ambiente facilitante per favorire uno sviluppo positivo del bambino, per permettergli di nutrire l’illusione che essa sia parte di lui, ma anche per lasciarsi distruggere (aggressività originaria del bambino) perché si abbia, in seguito, una vera e propria relazione oggettuale.
Winnicott distingue l’entrare in rapporto con l’oggetto, nel momento in cui il bambino non percepisce ancora la separazione tra me e non-me (il seno fa parte di sé), dall’uso dell’oggetto, che definisce il momento in cui l’altro è percepito come non-me, ed è allora che può essere usato (il seno è altro da sé dal quale nutrirsi, che può anche maltrattare, addentare, mangiare, distruggere senza che l’oggetto vada realmente distrutto, cioè scompaia o reagisca). Il passaggio dal primo al secondo momento è caratterizzato dalla distruzione fantasmatica dell’oggetto da parte del bambino, dalla scoperta e dalla gioia dovuta alla sua sopravvivenza e dalla possibilità di usarlo in quanto oggetto non-me. L’oggetto sopravvissuto, quindi, può essere usato poiché è uscito dall’area del controllo onnipotente del soggetto. Winnicott scrive che
“le madri, come gli analisti, possono essere sufficientemente o non sufficientemente buone: alcune possono, altre non sono in grado di portare il bambino dall’entrare in rapporto all’usare”
L’area intermedia, caratterizzata dall’oggetto transizionale (es. bambolotto o altro oggetto al quale il bambino è particolarmente legato), dopo il dito (autoerotismo orale), rappresenta l’oggetto contenitivo esterno (che prima era interno – madre come parte di ‘me’) e permette il passaggio da una modalità all’altra di entrare in contatto con l’oggetto. Ma non è l’oggetto ad essere transizionale, bensì l’oggetto rappresenta la transizione stessa da uno stato di fusione a uno stato di rapporto con la madre come persona. È nel momento in cui l’oggetto transizionale aiuta a colmare la distanza fra ‘me e non-me’ che il bambino diviene consapevole della separazione tra sé ela realtà esterna, pur mantenendo il controllo onnipotente sull’oggetto transizionale.
Il Sé, che affonda le sue radici in quell’aggregato di vitalità senso-motoria che si pensa caratterizzi il mondo interno del neonato, per Winnicott emerge proprio nel momento della differenziazione del me dal non-mee “rappresenta la realizzazione di un potenziale che potrebbe essere compromesso da influenze ambientali, ma che, altrimenti, verrà alla luce grazie ai gesti creativi del bambino”.
Gli oggetti transazionali, dunque, si dispongono nello spazio tra il Sé e la realtà esterna, lo spazio nel quale si verifica la simbolizzazione, in cui crescono amore e amicizia significativi, affettuosi, condivisi ma separati, dove gioco ed illusione vengono mantenuti nelle attività spontanee e creative delle persone sane.
Se la relazione con la figura materna soddisfa in modo parziale o alterato i bisogni del bambino, si produce un annichilimento dell’Io, al quale egli reagisce dissociandosi dal vero Sé ed elaborando un falso Sé. Questi casi sono legati al vissuto traumatico, ossia ad una frattura nella continuità della vita che non è stata riparata dalla figura materna. Il bambino, per difendersi dal’angoscia impensabile o dal ritorno dell’acuto stato confusionale proprio della nascente struttura dell’io, mette in atto delle difese primitive (dissociazione) che si sono organizzate per allontanare le emozioni legate al trauma e la possibilità di riviverle. Winnicott racconta la dissociazione di una sua paziente con queste parole:
“Man mano che … cresceva, si dava da fare a costruirsi una vita in cui nulla di ciò che realmente accadeva fosse del tutto importante per lei. Gradualmente diventò uno dei tanti che non sentono di esistere per se stessi come esseri umani completi. In ogni momento, senza saperlo, mentre era a scuola e più tardi al lavoro, c’era un’altra vita che procedeva nei termini della parte dissociata. Dall’angolo visuale opposto, ciò significava che la sua vita era dissociata dalla parte principale di lei, che viveva in quella che diventò una sequenza organizzata di fantasie”.
La dissociazione difensiva ed il falso Sé, dunque, legati ad un vissuto traumatico nella primissima infanzia, servono per tutelare e difendere la vera essenza creativa della psiche, il vero Sé. Tuttavia, conclude Winnicott:
“…si deve ammettere la possibilità che non vi possa essere distruzione completa della capacità di un essere umano di vivere creativamente e che anche nel più estremo caso di compiacenza e di formazione di una falsa personalità, esiste, nascosta in qualche luogo, una vita segreta, che è soddisfacente perché è una espressione creativa o originale, di quell’essere umano. Il suo non essere soddisfacente deve essere misurato in termini del suo essere nascosto, della sua mancanza di arricchimento attraverso l’esperienza del vivere”.
Kohut: frustrazione ottimale o ferita narcisistica?
Per Kohut, il fondatore della Psicologia del Sé, lo sviluppo dell’amore oggettuale di cui parla Winnicott si sviluppa in parallelo con i bisogni narcisistici (psicoanalisi). Entrambi sono presenti dalla nascita e permangono per l’intero corso della vita seguendo uno sviluppo parallelo a quello dell’amore oggettuale. Egli ritiene la posizione classica sul narcisismo, moralistica, poiché contrappone l’amore di sé all’amore per l’altro, considerando negativo il primo. Al contrario esisterebbe un “doppio binario”: una libido oggettuale ed una narcisistica, una che porta all’amore verso l’altro ed una all’amore verso di sé.
Per Kohut il Sé ha un ruolo funzionale: è una dimensione intrapsichica che si alimenta del rapporto con gli altri (oggetti-Sé). Se viene a mancare un’adeguata relazione adulto-bambino il Sé si ripiega su se stesso e si fissa in una posizione narcisistica: in tal caso l’esperienza del Sé, normalmente appagante, si disintegra e si cristallizza, in modo difensivo, dando luogo a un Sé grandioso e onnipotente (narcisistico).
Egli ritiene che lo sviluppo della personalità abbia origine da un Sé nucleare infantile. Diversamente da Freud, la formazione del Sé ha un inizio prepsicologico dovuto alla funzione psicologica messa in atto da chi offre sostentamento al bambino attraverso un rapporto di empatia, il caregiver, il quale tratta il bambino come se fosse un Sé, cosa che garantisce uno sviluppo normale della personalità. In genere la madre funge da oggetto-Sé prototipico. L’oggetto-Sé esercita sul bambino una funzione speculare che permette il dispiegarsi dell’esibizionismo e della grandiosità.
Per Kohut, come per Freud, il narcisismo primario è un investimento libidico del Sé. Rappresenta lo stadio che il bambino supera quando si rende conto che il suo sostentamento ha origine esterna. Del narcisismo primario fa parte il Sé grandioso, che necessita della funzione di rispecchiamento dell’oggetto-Sé, affinché le potenzialità innate del soggetto vengano alimentate dall’interazione. Kohut scrive che
“È importante che i genitori rispondano a queste inclinazioni naturali invece di cercare di imporre una loro preferenza personale”.
Parla anche di Imago parentale idealizzata (e qui siamo nel campo delle relazioni oggettuali) per la quale occorre un genitore disponibile all’idealizzazione. Quindi, continua Kohut,
“L’accettazione speculare della madre conferma la grandiosità nucleare del bambino; il suo tenerlo e portarlo in braccio permette esperienze di fusione con l’onnipotenza idealizzata dell’oggetto-Sé”
Dunque, il processo di formazione
delle strutture psicologiche passa attraverso due stadi contemporanei: il Sé
grandioso e l’Imago parentale idealizzata. Il Sé grandioso,
costituito da esibizionismo e grandiosità, è complementare all’imago parentale
idealizzata. Se l’esperienza di frustrazione è ottimale il bambino impara ad accettare i propri limiti realistici,
rinuncia alle fantasie grandiose e alle grossolane esigenze esibizionistiche,
sostituendole con mete e scopi sintonici all’Io e con l’autostima realistica.
L’imago parentale idealizzata è lo stato in cui una parte della perduta
esperienza di perfezione narcisistica è attribuita a un oggetto-Sé arcaico, il
genitore,
che viene così idealizzato. Al genitore spetta di lasciar cadere gradualmente
tale idealizzazione lasciando che il figlio incontri l’inevitabile esperienza
di frustrazione che lo porterà al passaggio evolutivo successivo.
Se si verificano situazioni eccessivamente frustranti, si produce un arresto evolutivo (fissazione narcisistica) ed una messa in crisi traumatica del Sé grandioso che si manifesterà, successivamente, come disturbo narcisistico della personalità. Per Kohut l’arresto evolutivo può essere riattivato soltanto attraverso il trattamento psicoanalitico.
Se la frustrazione, invece, non è troppo intensa (frustrazione ottimale) consente la modulazione graduale dell’onnipotenza infantile tramite l’interiorizzazione trasmutante che consiste nella contemporanea trasformazione ed interiorizzazione dell’imago idealizzata in Ideale dell’Io. Il Super-Io poi incorpora gli Ideali dell’Io.
Nel corso normale dello sviluppo l’interiorizzazione trasmutante trasforma il Sé grandioso e l’Imago parentale idealizzata in un Sé bipolare formato da ambizioni realistiche (lotta per il potere ed il successo), ideali dell’Io (obiettivi idealizzati) e doti e capacità (tra i due estremi del Sé bipolare).
L’obiettivo dello sviluppo è la realizzazione di un Sé coeso. Al contrario, se il Sé è vulnerabile, genererà angoscia di disintegrazione, dalla quale il soggetto tenterà di difendersi. Kohut parla delle difese che il soggetto mette in atto per proteggere il Sé patologico dalla ferita narcisistica (trauma) prodotta, nell’infanzia, dall’incapacità dei genitori di rispecchiare la grandiosità del bambino. Essi, non restituendo al bambino risposte empatiche, non avrebbero permesso la realizzazione di quell’appagamento che avrebbe dovuto trarre dal proprio Sé arcaico grandioso, e lo avrebbero portato comunque ad introiettare l’immagine idealizzata, ma fallace, degli oggetti-Sé. Il conseguente incremento del narcisismo infantile viene affrontato attraverso due possibili meccanismi difensivi: la scissione e la rimozione. Per Kohut la rimozione porta ad un impoverimento generale caratterizzato da bassa autostima e mancanza di iniziativa. La scissione si manifesta attraverso atteggiamenti vanagloriosi, orgogliosi, arroganti, altezzosi che non hanno nessun rapporto con la realtà e che sono isolati dal resto della psiche, che viene anche in questo caso svuotata di autostima.
Per Kohut le frammentazioni del Sé, vissute come sensazioni di crollo psicologico di entità più o meno grave, momentanee o permanenti, si verificano in ogni situazione che conduce a un oltraggio dell’autostima, vale a dire a un’offesa narcisistica. Se gli oltraggi al narcisismo si attualizzano nelle fasi precoci dello sviluppo, hanno un effetto traumatico, nel senso che inficiano la strutturazione del Sé coesivo adulto, privando la personalità di una base stabile di autostima. L’offesa narcisistica primaria, indissolubilmente collegata con l’esperienza della vergogna, scatena la rabbia narcisistica, uno specifico fenomeno affettivo che appartiene al settore psicologico dell’aggressività, della collera, della distruttività. Bisogno di vendetta, di risarcimento di un’ingiustizia o di un’offesa, con qualunque mezzo e irriducibile determinazione, sono gli elementi distintivi di questa potente emozione.
Kohut afferma che un individuo che è stato deluso traumaticamente in certi periodi della sua vita, quando la sua grandiosità non trovava eco, percepisce ogni tipo di interferenza con lo stato di benessere come un colpo all’autostima, un attacco alla grandiosità, laddove per grandiosità s’intende bellezza assoluta, il corpo perfetto, la grande impresa, la naturalezza, la perfezione morale, l’essere in pace con se stessi. Ogni sofferenza o malattia sarà sperimentata dal bambino, e poi dall’adulto, come ferita narcisistica, non come un disagio che può essere ragionevolmente affrontato, che ha una sua ragion d’essere e a cui si può reagire.
Se il bambino kohutiano subisce gravi traumi narcisistici, il Sé grandioso non è assorbito nel relativo contenuto dell’Io, ma si conserva nella sua forma inalterata e lotta per il raggiungimento dei suoi scopi arcaici. E se il bambino sperimenta delusioni traumatiche nei confronti dell’adulto che ammira, allora anche l’imago parentale si conserva nella sua forma inalterata, rimane un oggetto-Sé arcaico, transizionale, necessario per il mantenimento dell’omeostasi narcisistica. Al contrario, nello sviluppo normale del narcisismo, l’imago parentale si trasforma in una struttura psichica regolatrice della tensione, e raggiunge la condizione di un introietto accessibile. Il narcisismo cosiddetto sano, infatti, suggerisce la Ponsi, non in contrasto con il pensiero di Kohut,
“è un regolatore dell’autostima: quanto più questa viene minacciata o danneggiata, tanto più intensamente si attivano le risorse e le difese finalizzate a mantenere il sé coeso e a dare alla rappresentazione di sé una colorazione affettiva positiva”.
Ogden: il limite primigenio dell’esperienza
Tomas H. Ogden, nella sua opera Il limite primigenio dell’esperienza, formula l’ipotesi che l’esperienza umana sia il prodotto dell’interazione tra tre modalità generatrici dell’esperienza che, come la Klein, definisce posizioni: le modalità depressiva, schizo–paranoide e contiguo–autistica. La modalità contiguo-autistica fornisce un valido misuratore della continuità e integrità sensoriale dell’esperienza (la ‘base’ sensoriale’). La modalità schizo-paranoide è legata alla concretezza ed all’immediatezza dell’esperienza. Non c’è spazio per la simbolizzazione, non c’è spazio per l’ambivalenza, e la modalità preponderante per difendersi dall’angoscia da questa determinata è la scissione dell’oggetto (amato e odiato). La modalità depressiva è il tramite principale attraverso cui si genera la soggettività storica, cioè non più la fantasia onnipotente di poter padroneggiare l’angoscia attraverso la scissione, ma la capacità di tollerare l’ambivalenza e di vivere la ricchezza dell’esperienza umana simbolicamente mediata..
Sebbene la posizione contiguo-autistica sia temporalmente la prima ad essere sperimentata, la teoria di Ogden non va intesa in senso evolutivo poiché l’esperienza umana è il prodotto dell’interazione dialettica di tutte e tre di cui ciascuna, scrive l’autore, crea, preserva e nega l’altra.
“Allo stesso modo in cui il concetto di coscienza non ha senso se si astrae dal concetto di inconscio, così nessuna modalità generatrice di esperienza esiste isolatamente e in modo indipendente dalle altre. Ciascuna rappresenta il contesto negativo dell’altra”.
Ogden, come Winnicott, ritiene che il primo luogo nel quale si svolge l’esperienza del bambino sia il corpo. Dunque, un rudimentale senso di ‘egoità’ nel bambino sorgerebbe da rapporti di contiguità sensoriale con l’oggetto, dall’esperienza corporea che si ripete, scrive l’autore, con una
“ritmicità che è in procinto di diventare continuità del senso dell’essere; – che – possiede il carattere della finitezza con cui ha inizio l’esperienza di un luogo in cui si hanno sensazioni, si pensa, si vive; – che – acquista caratteristiche di figura, consistenza materiale, trama, caldo, freddo, che costituiscono i precursori delle qualità che identificano il proprio sé”.
Dunque, allo stesso tempo, il bambino può imparare a vivere le esperienze del contenimento e del limite, e quindi di unità con la madre, ma anche gli albori di una tenue, non autoriflessiva soggettività “in cui il bisogno sensibile è in procinto di acquisire i tratti del desiderio soggettivo”.
Le esperienze di contatto epidermico, di essere tenuti e cullati dalle braccia della madre che si rivolge al bambino con le parole o col canto sono gli ingredienti necessari per una iniziale e rudimentale esperienza del sé, del venire ad essere (Winnicott). Esso necessita, nell’ambito della relazione madre bambino, dell’appagamento di quei bisogni corporei (l’esperienza di superfici sensorie che vengono a ‘toccarsi’) che, scrive Stern,
“gradualmente diventano bisogni di un Io, al modo in cui una condizione psicologica affiora gradualmente dalla elaborazione immaginativa dell’esperienza fisica”.
Si tratta di una fase pre-psicologica, si potrebbe dire biologica dello sviluppo del bambino in cui si strutturano le forme più elementari della esperienza umana. In essa le modalità sensoriali dell’esperienza sono organizzate in processi difensivi per proteggere il bambino dalla percezione del pericolo. Se si verificano circostanze di estrema e protratta ansia queste difese si irrigidiscono e determinano una struttura psicologica contiguo-autistica in senso patologico.
La primigenia organizzazione psicologica, infatti, dovrebbe fornire all’individuo il contenimento sensoriale necessario per permettere l’accesso agli stadi successivi della soggettività. Se l’angoscia del bambino, tuttavia, raggiunge livelli estremi, sia per fattori costituzionali sia ambientali o per entrambi i casi, scrive Ogden,
“il sistema di difese che caratterizza questa modalità diviene ipertrofico e rigido; questo conduce a un’ampia gamma di autismo patologico che va dal vero e proprio autismo patologico infantile fino a tratti autistici in pazienti che per altri versi hanno organizzato una struttura psicologica essenzialmente nevrotica”.
Il collasso verso il polo contiguo-autistico, secondo la teoria di Ogden, provocherebbe l’asservimento della personalità alla tirannia meccanica di tentativi di fuga nella sensorialità, attuati affidandosi a rigide difese autistiche per far fronte all’angoscia di un vissuto senza forma e contenimento.
Difese che, in altri termini, potremmo definire dissociative, e che ci riconducono al discorso sul trauma.
La modalità contiguo-autistica di cui parla Ogden, infatti, che temporalmente si sperimenta prima delle altre due modalità, può contribuire a spiegare, a livello presimbolico, quanto la mancanza o l’inadeguatezza delle cure materne nelle prime fasi della vita, ed in particolare dell’esperienza corporea, possa influire sulla personalità degli individui per quanto riguarda la capacità di contenimento e di percezione del limite tra sé e l’altro.
Neumann: l’archetipo della Grande Madre e il senso di colpa primario
Anche Neumann, uno dei più importanti seguaci di Jung, sosteneva l’importanza del rapporto originario del bambino con la madre, fondamentale per la formazione di un Io integrale positivo. Un Io in grado di elaborare sia le esperienze positive sia quelle negative o spiacevoli in relazione al mondo esterno e al mondo interno. Egli scrive:
“Proprio come il corpo del bambino deriva per la sua struttura complessiva dal nutrimento fisico che riceve dalla madre, così lo sviluppo della psiche, dell’Io e del rapporto Io-Sé dipende dal nutrimento psichico a opera della figura materna”.
Per Neumann la situazione di indifferenziata identità madre-bambino che caratterizza i primi periodi di vita è fondamentale poiché rappresenta contemporaneamente il primo rapporto con il tu, con il proprio corpo, con se stesso nascente e con il mondo, ed è alla base delle esperienze future. L’Io del bambino, alla nascita, si trova di fronte a disturbi quali la fame, la sete, il freddo, il dolore, l’essere bagnato, per i quali la madre rappresenta colei in grado di ristabilire l’equilibrio perduto. Assume la funzione di un Sé, il centro della psiche, che restituisce armonia ed equilibrio. Il tutto avviene tramite l’esperienza corporea. La superficie del corpo, infatti, rappresenta quel territorio di confine che permette l’esperienza.
Un’esperienza che va dal piacere legato all’assunzione del cibo alla conoscenza della realtà. D’altronde, scrive l’autore, anche a livello mitico, del rituale e del linguaggio, la prima forma di conoscenza del mondo viene espressa tramite il simbolismo del corpo: conoscere come assumere e divorare; afferrare come prendere in mano; elaborare come digerire, assimilare; negare come rigettare ed espellere dal corpo. Scrive Neumann:
“Poiché nella fase iniziale dello sviluppo umano, amore e conoscenza, sviluppo dell’Io e relazione con il tu sono indissolubilmente connessi, il rapporto originario con la madre è di cruciale importanza. Mentre un disturbo radicale del rapporto originario conduce di fatto il bambino all’istupidimento, un rapporto originario gratificante costituisce un presupposto essenziale (anche se non il solo) per quell’apertura del bambino al mondo che è il fondamento del suo successivo sviluppo conoscitivo.
Anche per questo motivo la Grande Madre come figura positiva non è soltanto la dispensatrice di vita e di amore, ma nella sua forma più alta è anche la Sofia, la dea della conoscenza e della saggezza”.
Neumann sostiene, infatti, che la realtà archetipica, alla quale egli si rifà sulla scia di Jung, debba essere attivata, evocata per la prima volta da un’esperienza nel mondo. Nel caso delle cure primarie legate al rapporto simbiotico con la madre, che egli individua nella fase uroborica,
“Proprio per il fatto che … il Sé è esteriorizzato nella madre, e il destino del piccolo dipende da lei nel bene e nel male, una condizione di vita positiva, nell’appercezione inconscia, simbolica e mitologica del bambino, equivale ad essere accettato e amato dalla Grande Madre; mentre una condizione negativa equivale a essere rifiutato e condannato dalla Madre Terribile”.
Dato che il corpo del bambino equivale al Sé corporeo, deprivazioni o traumi in questa fase possono compromettere lo sviluppo della personalità intera.
L’Io bambino che sperimenta la deprivazione e che quindi ha vissuto un rapporto originario negativo viene definito da Neumann Io d’angoscia e rappresenta il precipitare nell’abbandono e nella paura di un nulla senza fondo. L’Io d’angoscia, che ha dovuto sperimentare l’aspetto Terribile della Grande Madre,sperimenta l’abbandono e la rabbia, che si esprime in un’aggressività non integrabile poiché legata ad un Io negativizzato, non amato e non degno di amore, solo e spinto per questo a divenire prematuramente autonomo. Il sintomo che contraddistingue questa situazione è quello che l’autore chiama senso di colpa primario. Il bambino, che in seguito diventerà l’adulto, per placare la mancanza affettiva subita, infatti, se la prenderà non con il mondo esterno, ma con se stesso in quanto convinto di essere la causa di tale situazione (perché non normale, malato, inadeguato…). Si tratta di un senso di colpa arcaico, differente da quello della successiva fase che, freudianamente, può essere chiamata edipica. Dato che la madre rappresenta contemporaneamente tu, mondo e sé, il bambino vive il mondo come caos, nulla, il tu scompare e lascia il bambino in uno stato di solitudine o smarrimento. In alcuni casi la madre può diventare anche il nemico persecutore e, nella psiche, il Sé personale trasformarsi nella Grande Madre Terribile.
Dunque per Neumann
“Un disturbo che interviene nella prima fase del rapporto originario, quando l’Io non è ancora consolidato e non ha raggiunto una struttura propria, provoca un indebolimento dell’Io, che a sua volta rende possibile un’inondazione da parte dell’inconscio e una dissoluzione della coscienza”.
Tuttavia l’attivazione dell’archetipo materno è importante nei casi in cui la madre sia in grado di far sperimentare al figlio gli opposti, dandogli la possibilità di fondere contenuti positivi e negativi in una unità produttiva, progressiva (l’Io integrale positivo) e creativa.
Kalsched: attivazione di difese archetipiche in una psiche traumatizzata
Nell’elaborare la sua teoria Kalsched si avvale del contributo di Jung, di altri autori e della sua esperienza di analista. Egli racconta di essersi trovato spesso di fronte a pazienti in una situazione psichica in cui non avevano hanno parole per i sentimenti.
Dopo un periodo iniziale di crescita e miglioramento tali pazienti sembravano aver raggiunto un limite oltre il quale non riuscivano ad andare, imprigionati in una ‘coazione a ripetere’ di comportamenti che potevano essere ricondotti a traumi del passato. Si distinguevano dagli altri per la loro infanzia caratterizzata da esperienze che avevano sopraffatto la loro sensibilità non comune e che erano stati costretti a relegare nelle profondità della psiche, dissociandole. Una parte del loro essere sembrava essersi evoluta ed adattata alla realtà esterna, seppur rinunciando a gran parte della sfera emotiva della propria personalità. L’altra parte, legata ai vissuti traumatici, appariva molto infantile, probabilmente perché rimasta inalterata dal momento del trauma, acuto o cumulativo, vissuto precocemente.
Si trattava di persone che erano diventate autonome ed indipendenti molto presto, recidendo precocemente i legami con la famiglia ma, allo stesso tempo, sviluppando un segreto bisogno di dipendenza del quale si vergognavano. A mano a mano Kalsched si rese conto, attraverso l’analisi dei sogni, che questa situazione psichica era tenuta in vita invariata da una figura interna che teneva questi pazienti gelosamente avulsi dal mondo esterno e, contemporaneamente, li attaccava con una critica ed una violenza spietate. Si tratta di una immagine che nei sogni compare come una figura ambivalente, allo stesso tempo protettrice e persecutrice, archetipica.
Kalsched parla del trauma precoce, osservato dal punto di vista della dinamica psichica. Fa riferimento in particolare ad esperienze devastanti di abuso sull’infanzia, ai cosiddetti traumi cumulativi, ai bisogni di dipendenza inappagati che nello sviluppo dell’individuo possono avere effetti devastanti e che determinano nei bambini, come scrive Winnicott, quelle angosce o agonie primitive la cui esperienza è impensabile. Winnicott, lo abbiamo visto, parlava del rischio del bambino di cadere a pezzi se non viene contenuto dalle cure dei genitori, sia fisiche sia psicologiche, mentreKohut descriveva la paura che minaccia di dissoluzione il Sé coeso, e che definiva angoscia di disintegrazione.
L’io bambino, infatti, non ha ancora gli strumenti per far fronte all’angoscia primitiva di cadere in pezzi, all’angoscia di disintegrazione generate da una sofferenza psichica intollerabile (trauma) poiché ancora non ben formato, e quindi non riesce a mettere in atto le consuete strategie di difesa, quei meccanismi di difesa dell’Io di cui parlava Freud e che definiva lo scudo protettivo contro gli stimoli. In proposito Kalsched ha elaborato la teoria secondo cui l’io bambino, non avendo ancora capacità di simbolizzazione e non essendo le sue consuete difese ancora attive, se viene travolto da una sofferenza psichica intollerabile, attiva delle difese arcaiche dissociative. Può verificarsi quindi una frammentazione della coscienza in parti,i nuclei complessuali autonomi (Jung),che si organizzano secondo modelli arcaici, archetipici appunto, in genere in diadi dalle quali emergono immagini l’una l’opposto dell’altra. Di solito la parte scissa regredisce ad un periodo infantile. Utilizzando la terminologia di Winnicott, Kalsched definisce questa parte psichica come Vero Sé che, in pazienti traumatizzati, viene scisso dal resto della personalità.
L’altra parte progredisce troppo velocemente e si adatta precocemente al mondo esterno, tentando di proteggere la parte regredita, costellandosi come un Falso Sé. La parte progredita della personalità, dunque, si “prende cura” della parte regredita fino al punto in cui il sistema archetipico autocurativo della psiche impazzisce. Scrive Kalsched:
“Come il sistema immunitario del corpo, il sistema di autocura espleta le sue funzioni attaccando energicamente ciò che ritiene ‘estraneo’ o ‘pericoloso’. Le parti vulnerabili dell’esperienza del sé nella realtà vengono viste proprio come ‘elementi pericolosi’ e vengono attaccate di conseguenza. Questi attacchi servono a scardinare la speranza nelle relazioni oggettuali vere e a spingere il paziente sempre più dentro la fantasia; e proprio come il sistema immunitario può essere tratto in inganno e attaccare quella stessa vita che cerca di proteggere (malattie autoimmuni), così il sistema di autocura può diventare un ‘sistema autodistruttivo’ che trasforma il mondo interiore in un incubo di persecuzione e autoaggressione”.
Kalsched cita diversi casi in cui i pazienti si vergognavano delle proprie emozioni infantili (del Vero Sé), e soprattutto dei propri bisogni di attenzione, di cura, di amore che durante l’infanzia gli erano stati negati e che rifuggono per tutta la vita. La rabbia e l’odio verso i genitori amati, infatti, vengono introiettati ed amplificati tramite l’attivazione della sfera archetipica, ed ostacolano ogni possibile riemersione dell’aspetto emotivo della personalità. Lo potremmo chiamare, con Bion, “attacco al legame”, sia nei confronti del mondo esterno sia tra le stesse istanze della psiche, poiché
“le energie aggressive archetipiche che imperversano nella psiche la smembrano allo scopo di impedire all’io di sentire la sua stessa sofferenza”
Il trauma, come accade continuamente nella vita, si ripropone in ripetute re-citazioni (gli attacchi al legame), come se la persona fosse posseduta da una potenza diabolica o da un fato maligno. Per Kalsched la parte progredita della personalità si ‘personifica’, lo rendono evidente i sogni, in una grande e potente immagine, benevola e malevola, che ne protegge e allo stesso tempo perseguita un’altra vulnerabile, il Vero Sé o io infantile.
Cita Jung richiamando l’archetipo del Briccone alchemico, Ermes-Mercurio, ambivalente, paradossale, fonte di guarigione come di distruzione. Veniva rappresentato con un bastone alato, il caduceo, formato da due serpenti attorcigliati in direzioni opposte e con funzioni opposte: l’uno portava il veleno, l’altro l’antidoto. Era una divinità di soglia, un dio dello spazio transizionale, un Giano bifronte. Poteva manifestarsi come un essere amorale e malvagio, identificato spesso con potenti animali o demoni inferi. Ma Ermes era anche lo psicopompo, intermediario fra due mondi. Un’immagine che può essere anche salvifica e permettere alle energie psichiche di liberarsi e di avviarsi verso un nuovo inizio.
In tal senso Kalsched cita il sogno di una sua paziente, una giovane artista, che da bambina aveva subito abusi dall’unico genitore rimastole e che aveva amato profondamente, suo padre. Nel setting la donna teneva ben celata la propria sofferenza, tranne che per quanto riguardava le numerose lagnanze psicosomatiche. Soltanto dopo un anno dall’inizio della terapia, in concomitanza con l’annuncio da parte dell’analista della sua partenza per un viaggio, si era concessa la possibilità di sentirsi piccola e vulnerabile. Questo suo atteggiamento aveva messo in pericolo la situazione psichica di dissociazione e l’aveva portata a scrivere una lettera all’analista nella quale annunciava la sua decisione di sospendere il trattamento poiché stava diventando ‘troppo dipendente’. Fece anche un sogno nel quale, scriveva,
“…Un uomo molto alto con una faccia bianca come un fantasma e dei buchi neri al posto degli occhi entra impugnando un’ascia. La solleva sopra il mio collo e la tira giù … Mi sveglio terrorizzata”.
Sicuramente l’immagine dell’uomo ha accesso alla camera da letto della donna proprio come lo aveva suo padre al tempo degli abusi, ma lo sterminatore nel sogno rappresenta molto di più della figura paterna introiettata; “è una figura primitiva, arcaica, archetipica, che personizza la terrificante furia smembratrice della psiche collettiva e, come tale, rappresenta il lato oscuro del Sé”. Il rischio che vuole evitare la psiche traumatizzata, dal quale si difende tramite la volontà di abbandonare la terapia, ma anche attraverso l’emersione dell’immagine maschile archetipica, è quello di dare nuovo spazio all’emotività che potrebbe portare a rivivere l’esperienza traumatica.
Interessante è l’immagine della decapitazione che simbolicamente può essere interpretata come una scissione mente – corpo e quindi della sfera cognitiva rispetto a quella emotiva, più legata alle sensazioni del corpo, già evidente nella condotta alessitimica e nelle somatizzazioni che la paziente riferiva. Come ho già affermato in precedenza, infatti, i ricordi traumatici spesso vengono immagazzinati a livello emozionale e somatosensoriale con una scarsa elaborazione a livello narrativo, e quindi cognitivo.
Kalsched cita il lavoro di diversi autori dal quale si desume come la totalità dell’esperienza sia un insieme di molti fattori, e come non sia facile che si determini una esperienza realmente integrata. In particolare cita le ricerche di Braun il quale individua quattro aspetti dell’esperienza nei quali può verificarsi la dissociazione: comportamento, emozione, sensazione, conoscenza (modello BASK, behavior, affect, sensation, knowledge). Egli scrive:
“Nel disturbo dissociativo, ciascuno di questi aspetti si può scindere al suo interno, oppure possono venire recisi i consueti legami interni ed esterni tra di essi”.
L’immagine archetipica, dunque, diventa il difensore della dissociazione, ed è emblematico in tal senso l’uomo con l’ascia del sogno della paziente di Kalsched che tenta di scindere ciò che sembrava stesse iniziando ad intessere nuove connessioni.
Kalsched sottolinea come soltanto attraverso un lavoro analitico vi possa essere elaborazione del vissuto traumatico. L’originaria situazione traumatica, infatti, mette seriamente in pericolo la sopravvivenza della personalità, soprattutto perché non viene conservata nella psiche in una forma personale, e quindi accessibile alla memoria, ma in forma di dinamica archetipica. Questo strato collettivo dell’inconscio ha bisogno di “incarnarsi” in una interazione umana, in una esperienza di “ritraumatizzazione” che non sia soltanto la ripetizione inconscia del vissuto traumatico nel mondo interiore, ma che diventi una traumatizzazione reale con un oggetto nel mondo, affinché il processo interiore e l’essenza creativa della psiche possano riattivarsi.
Kalsched scrive che la psicoterapia da sempre ha dovuto affrontare, con difficoltà, la forte resistenza messa in atto dai pazienti traumatizzati, e ad attribuirla all’azione di potenze, demoni interiori. Già Freud si era trovato a fronteggiare la forza demonica di alcuni pazienti tramite la quale si opponevano alla terapia. Egli si rese conto che certe ‘resistenze primitive’ non sembravano cedere e formulò l’ipotesi che vi fossero altri tipi di ‘resistenze’ oltre a quelle in difesa dell’Io, legate alle altre istanze della psiche (Es e Super-Io).
In alcuni pazienti aveva rilevato un atteggiamento autodistruttivo di ripetizione compulsiva. Ad esempio, una giovane donna che aveva subito l’abbandono precoce del padre, tendeva a rivivere la stessa situazione di abbandono nelle relazioni successive, anche quella analitica, provocandole ella stessa con i suoi atteggiamenti. Freud spiegava tali comportamenti come una tendenza della psiche a confondere una situazione positiva attuale con la situazione traumatica originaria. Nel1930, nell’intento di spiegare la coazione a ripetere, tuttavia, elaborò il concetto di istinto di morte. Egli scriveva:
“…Trassi la conclusione che, oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più vaste, dovesse esistere un’altra pulsione a essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primordiale inorganico originario. Dunque, oltre ad Eros, una pulsione di morte”.
Tale pulsione, Thanatos in opposizione ad Eros, avrebbe avuto come fine ultimo quello di eliminare la vita e ridurla ad uno stato inorganico originario.
Nell’ambito della stessa teoria dualistica Freud tentò di risolvere anche il problema di quella che definì la reazione terapeutica negativa. Egli osservò che molti pazienti mostravano un peggioramento nella terapia allorquando l’analista si dimostrava soddisfatto dei risultati ottenuti e dava loro una speranza di guarigione. Egli riteneva che tale atteggiamento fosse da attribuire all’intervento di un Super-Io arcaico, generatosi da una mancata espressione verso l’esterno dell’aggressività verso i genitori, quindi rivolta verso l’Io. Tale situazione creerebbe un dualismo (diade) negativo tra le istanze dell’Io e del Super-Io in cui il secondo si manifesterebbe tramite modalità sadiche nei confronti di un Io masochista, che avrebbe rivolto già in precedenza verso di sé la sua aggressività. Ciò genererebbe anche la coazione a ripetere. Rimaneva però il problema che il Super-Io, il più delle volte, travalica i limiti di quella che era stata l’aggressività delle figure genitoriali, cosa che Freud attribuì in seguito all’azione dell’istinto di morte.
Fino ad un certo punto Freud sembra molto vicino alla teoria di Kalsched, tant’è vero che egli stesso scrive, riferendosi ad alcuni suoi pazienti:
“Non vi è dubbio che in costoro qualche cosa si oppone alla guarigione, e che l’approssimarsi di questa è temuto come un pericolo”.
Il Super-Io arcaico, come gli atteggiamenti autodistruttivi, ‘demoniaci’ della coazione a ripetere di Freud, tuttavia, potrebbero essere spiegati anziché attraverso l’istinto di morte, riferendosi ad una realtà archetipica ‘negativa’, che tende a mantenere lo status quo nella psiche (coazione a ripetere). Inoltre Freud sembra eludere l’esistenza di una parte ‘positiva’ del Super-Io. Per Kalsched questa parte verrebbe in soccorso ad un io, o vero Sé, ancora non formato, infantile, da proteggere, che potremmo avvicinare all’Ideale dell’Io di cui parla Freud, ma che sembra dimenticare in alcuni passi. Ed è proprio l’Ideale dell’Io di Freud, o l’aspetto positivo dell’archetipo che, proiettato sull’analista, può aiutare il paziente ad elaborare i traumi del passato.
Dunque, una figura ambivalente, spesso molto più sadica e brutale di qualunque aggressore esterno, può trasformarsi, incarnandosi nell’analista, in una forza salvifica. Kalsched, sulla scia della teoria degli archetipi di Jung, parla dell’attivazione di una personificazione archetipica, un Protettore/Persecutore, con l’intento di proteggere quello che chiama lo spirito personale.
Ciò può far pensare al già citato caso della ‘fantasia lunare’ della paziente schizofrenica di Jung, citato anche da Kalsched.
Dal suo racconto e dai suoi scritti teorici emerge quanto Jung ponesse attenzione alle dinamiche inconsce, in particolare a quelle archetipiche. Egli scrive che a prima vista inconscio e coscienza sembrano agire in maniera analoga (con percezioni, pensieri, sentimenti, volontà, intenzioni, come se fosse presente un soggetto), ma in realtà non è così. I contenuti inconsci, i complessi a tonalità affettiva, si presentano nella loro forma originaria perché non possono essere corretti e, all’aumentare della dissociazione di un complesso rispetto al complesso dell’io, sembrano precipitare a un livello arcaico-mitologico, archetipico.
Nel racconto di Jung la paziente, sopraffatta dalle esperienze di violenza subite, aveva elaborato la sua ‘fantasia lunare’ dalla quale emergeva l’immagine ambivalente del vampiro. Il sogno infatti recita così:
Questi la strinse nelle sue braccia alate come in una morsa d’acciaio, impedendole di brandire il coltello. D’altronde era talmente affascinata dallo sguardo del vampiro che non sarebbe stata capace di colpire. Egli poi la sollevò dal suolo e volò via con lei.
L’aspetto negativo dell’immagine è legato alla sua opera di difesa dissociativa rispetto all’angoscia e al dolore psichico intollerabili che, tuttavia, avevano allontanato, e continuavano a tenere lontano la donna da qualsiasi relazione con il mondo ‘terreno’, e quindi dalla vera vita. Si desume anche un valore salvifico da attribuire al vampiro, dato che la ragazza rischiava di suicidarsi, seppur sacrificando gran parte della personalità al fine di mantenerla in vita.
In Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche Jung approfondì il rapporto tra il complesso a tonalità affettiva, dietro il quale si cela l’archetipo, e la coscienza. Esso, lo abbiamo detto, se non entra in contatto con la coscienza, mantiene la sua forma originaria, il suo carattere coattivo, non influenzabile, di automatismo. I complessi assumono, in proporzione della loro distanza dalla coscienza, un carattere arcaico-mitologico e quindi una numinosità, evidente nelle dissociazioni schizofreniche, in cui la numinosità è completamente sottratta all’influenza cosciente, e il soggetto si trova a vivere uno stato di emotività privo di volontà. Al contrario, i complessi divenuti coscienti, scrive Jung,
“possono essere radicalmente trasformati. Depongono la loro corteccia mitologica e, entrando nel processo di adattamento che si verifica nella coscienza, si razionalizzano, tanto che diventa possibile un confronto dialettico”.
Ma, scrive in un altro passo, criticando la teoria freudiana dell’abreazione:
“Una ripetizione del momento traumatico può eliminare la dissociazione nevrotica soltanto quando la personalità conscia dei pazienti risulti così rafforzata dalla relazione con il terapeuta che il paziente può riportare coscientemente il complesso autonomo – dissociato – sotto il controllo della volontà”.
Nel caso riferito da Jung, dunque, tramite la proiezione transferale nei confronti dell’analista, che probabilmente non deluse la donna del racconto come invece avevano fatto gli uomini della sua vita, l’ultimo dei quali l’assistente medico, la paziente poté affrontare concretamente ed in maniera più consapevole l’ambivalenza dell’immagine del vampiro incarnata in un uomo reale, e riappropriarsi della propria vita. Anche Jung, quindi, come Kalsched, riteneva che la presenza del terapeuta fosse fondamentale per i soggetti traumatizzati. Egli infatti scriveva che “l’esperienza – traumatica – deve essere rinnovata in presenza del terapeuta”, al fine di integrare le parti dissociate della psiche, possiamo aggiungere.
Kalsched ritiene che l’originaria situazione traumatica metta seriamente in pericolo la sopravvivenza della personalità, soprattutto perché non viene conservata nella psiche in una forma personale, e quindi accessibile alla memoria, ma in una forma archetipica demonica E scrive:
“Questo … strato collettivo o ‘magico’ dell’inconscio … non può essere
assimilato dall’io fino a che non si ‘incarna’ in una interazione umana.
Essendo dinamismo archetipico, esso ‘esiste’ in una forma che non può essere
recuperata dall’io se non in una esperienza di ritraumatizzazione.…la
ripetizione inconscia di traumatizzazione nel mondo interiore, che continua
incessantemente, deve diventare una traumatizzazione reale con un oggetto nel mondo, perché il sistema interiore possa essere
‘sbloccato’”.
CONCLUSIONE
Tutto il lavoro umano trae origine dalla fantasia creativa, dall’immaginazione…
L’attività creatrice dell’immaginazione strappa l’uomo ai vincoli che lo imprigionano…
elevandolo allo stato di colui che gioca.
E l’uomo, come dice Shiller, ‘è totalmente uomo solo là dove gioca’. Jung
In questo lavoro ho tentato di esporre come i sintomi del DPTS possano essere osservati da diversi punti di vista. I criteri diagnostici si limitano a descriverli, seppur in maniera dettagliata, senza però soffermarsi ad operare connessioni tra di essi o con altri disturbi psicopatologici, o ad ipotizzare un’eziologia che vada al di là del singolo evento traumatico.
Bessel Van der Kolk ha messo in luce la stretta correlazione tra trauma, dissociazione e somatizzazione e, avvalendosi di alcune ricerche sue e di altri autori, si è preoccupato di evidenziare i risvolti neurofisologici dei vissuti traumatici. In particolare si è soffermato sulla memoria e sul fatto che la dissociazione, il sintomo principale legato al trauma, sia un processo profondo legato al mancato funzionamento della memoria dichiarativa (il cosiddetto terrore muto).
Ha anche sottolineato come una sintomatologia più complessa possa essere determinata da un trauma vissuto in tenera età e dalla fissazione ad una determinata fase dello sviluppo. A volte, infatti, può accadere che un particolare evento possa attivare ricordi a lungo dimenticati, facendo riemergere i traumi del passato. Scrive Van der Kolk:
“Gli individui che per esempio hanno subito traumi all’età di tre anni possono continuare a elaborare gli intensi stati emotivi con le capacità evolutive di un bambino, mentre gli individui traumatizzati in epoca successiva utilizzeranno meccanismi diversi per fronteggiare altre esperienze stressanti”.
Le parole di Van der Kolk sembrano perfettamente concordanti con la seconda parte di questo lavoro, nella quale ho esposto quale sia il vissuto profondo dei soggetti che hanno avuto esperienze traumatiche in età precoce. La rabbia, la vergogna, il senso di colpa legati ad uno o più traumi cumulativi vissuti in tenera età, quando l’io non è ancora ben strutturato e capace di attivare le sue consuete difese, sono emozioni che il più delle volte rimangono inalterate, e quindi non vengono elaborate, perché intollerabili. Il bambino che non è stato contenuto dalla figura materna, con la quale nei primi mesi di vita si dovrebbe instaurare una relazione legata principalmente all’esperienza corporea dell’essere toccato, cullato, nutrito (Ogden), accolto, consolato, rischierà di cadere in pezzi (Winnicott) ogni volta che si troverà, anche da adulto, ad affrontare un evento frustrante, capace di risvegliare quella che Kohut definì ferita narcisistica.
Da questa il soggetto traumatizzato si difende tramite la dissociazione, relegando la sfera emotiva nelle parti più profonde della psiche, lontana dall’influenza della coscienza, laddove rimane inalterata, infantile. Ma ciò non l’allontana dal vivere nuove traumatizzazioni ad opera non più dei genitori reali, ma di immagini trans-personali, archetipiche evocate dall’esperienza traumatica. Anche Freud si era reso conto di come l’aggressività interna del Super-io fosse di gran lunga superiore rispetto a quella dei genitori appartenenti alla realtà concreta. Possiamo parlare allora con Neumann dell’archetipo della Grande Madre Terribile, con Kalsched di Persecutore interno che continuano a fare in modo che il soggetto si difenda tenendosi lontano dalle emozioni legate al contenuto traumatico, che tuttavia rimangono inelaborate e continuano a manifestarsi attraverso i sintomi.
In questi casi vivere un’esperienza analitica nella quale confrontarsi con i propri complessi, con le proprie immagini psichiche, nella “concretezza” della relazione con l’analista, può rappresentare l’opportunità per imparare giocare, nel senso winnicottiano del termine, con se stessi, con gli altri e con gli eventi del mondo esterno, dando voce alle emozioni e recuperando l’essenza creativa ed immaginativa, quindi simbolica, insita in ogni essere umano.
E concludo con una frase di Jung che parla dell’esistenza di una vera e propria spinta verso la creatività che chiama istinto di gioco, strettamente legato alla sfera emotiva umana, della quale si alimenta. Egli scrive:
“Non l’intelletto ma
l’istinto di gioco provvede per necessità interiore alla produzione di nuovo.
Lo spirito creatore gioca con gli oggetti che ama.
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Vedi anche, su questo sito, https://www.psicologia-analitica-junghiana.it/il-terremoto-dellaquila-ed-il-vissuto-del-trauma/ pubblicato sulla rivista “Quaderni di cultura junghiana” n°3, 2014, clicca qui per scaricare il pdf
Un commento
Candidato_2022
Nel campo della psicologia clinica in generale, lo psicodramma e stato recentemente utilizzato nel trattamento del disturbo post traumatico da stress (DPTS) risultando un approccio terapeutico altamente efficace.