L’area intermedia della creatività tra Winnicott e Jung
“Il luogo in cui l’esperienza culturale è ubicata
è lo spazio potenziale tra l’individuo e l’ambiente (originariamente l’oggetto).
Lo stesso si può dire del gioco.
L’esperienza culturale comincia con il vivere in modo creativo,
ciò che in primo luogo si manifesta nel gioco” (Winnicott).
“Tutto il lavoro umano trae origine dalla fantasia creativa, dall’immaginazione…
L’attività creatrice dell’immaginazione strappa l’uomo ai vincoli che lo imprigionano…
elevandolo allo stato di colui che gioca.
E l’uomo, come dice Shiller, ‘è totalmente uomo solo là dove gioca’” (Jung).
Premessa
La logica aristotelica ci insegna che di fronte a due opposti, la presenza di un terzo è da escludere. La psiche, invece, sembra avere un logos di natura diversa, per il quale gli opposti possono generare un terzo che li contiene entrambi. Si tratta di un luogo intermedio, una zona di confine, una realtà trasformativa e creativa che assume forme diverse a seconda del punto di osservazione e dell’oggetto (interno o esterno)che gli psicologi si propongono di analizzare.
In questo lavoro vorrei provare ad individuare punti di convergenza e differenze tra le teorizzazioni di Winnicott e Jung, i quali hanno descritto la realtà psichica, ed in particolare i fenomeni psichici che si trovano nella zona di confine tra due tendenze opposte, osservandoli da punti di vista differenti.
Mentre Winnicott fa riferimento ad una realtà psichica che, sin da bambino, il soggetto costruisce nell’interazione con l’ambiente attraverso un processo di personalizzazione, per Jung le trasformazioni avvengono a livello intrapsichico, in un processo di individuazione nel quale l’individuo tende al proprio Sé, il centro della personalità, che lo orienta verso la realizzazione di ciò che realmente è. Il Sé viene descritto da Jung come “una sorta di punto centrale all’interno dell’anima, al quale tutto sia correlato, dal quale tutto sia ordinato e il quale sia al tempo stesso fonte di energia. L’energia… si manifesta in una coazione pressoché irresistibile, in un impulso a divenire ciò che si è…” (Jung, 1950, p. 349).
Quella di Winnicott, quindi, è una concezione prevalentemente eziologica poiché lo scopo della terapia psicoanalitica è quello di riattivare un arresto evolutivo avvenuto nell’infanzia a causa di relazioni inadeguate rispetto alle esigenze del bambino. La psicologia analitica di Jung, invece, pur non trascurando il punto di vista eziologico, propone una visione teleologica secondo la quale lo scopo della terapia consiste nella realizzazione, da parte dell’individuo, del Sé, che già era presente in nuce sin dalla nascita e che tende ad attualizzarsi attraverso l’individuazione.
Lo sviluppo psichico del bambino in Winnicott
Winnicott, pediatra e psicoanalista, si distingue dalla Klein per il valore che attribuisce alla realtà esterna, seppur non trascurando la fantasia. I suoi interessi si concentrano sulla relazione precoce madre-bambino e sull’importanza di questa nella crescita sana dell’individuo.
Si discosta da Freud ponendo l’accento sulla realtà oggettuale e, in particolar modo, sul processo che chiama di personalizzazione, di integrazione tra individuo e ambiente. Descrive le modalità attraverso cui la relazione con l’oggetto emerge dall’esperienza di onnipotenza magica (cfr. Winnicott, 1971, pp. 23-60, 101-118), che caratterizza i primi mesi di vita del bambino. Egli, infatti, alla nascita si trova a vivere una situazione indifferenziata con l’ambiente, rappresentato dalla madre, nei confronti della quale si crea una dipendenza assoluta. La madre dovrà avere una funzione di contenimento (holding) poiché, scrive lo stesso autore, “In psicologia bisogna dire che il bambino cade a pezzi se non viene tenuto insieme e, in queste fasi, le cure fisiche sono cure psicologiche” (Winnicott, 1919/69, p. 134). Attraverso queste cure il soggetto pone le premesse per lo sviluppo della capacità di contenimento, fondamentale per affrontare le frustrazioni e per difendersi dalla disgregazione della personalità (cfr. Carotenuto, 1991,p. 99).
Scrive Winnicott: “Prima viene l’Io, che significa che tutto il resto è il non-me, successivamente viene l’Io sono, Io esisto, accumulo esperienze e mi arricchisco e ho una interazione introiettiva e proiettiva con il non-me, il mondo reale della realtà comune” (Winnicott, 1962, p. 178). È dalla capacità del caregiver di rispondere alla situazione di dipendenza, inizialmente totale ma progressivamente sempre meno, che dipende la forza o la debolezza dell’Io del bambino (cfr. idem), e successivamente dell’adulto. La madre deve essere sufficientemente buona, contenitiva e fornire un ambiente facilitante per favorire uno sviluppo positivo del bambino, per permettergli di nutrire l’illusione che essa sia parte di lui, ma anche per lasciarsi distruggere (aggressività originaria del bambino) perché si abbia una vera e propria relazione oggettuale.
Winnicott distingue l’entrare in rapporto con l’oggetto, nel momento in cui il bambino non percepisce ancora la separazione tra me e non-me (il seno fa parte di sé), dall’uso dell’oggetto, che definisce il momento in cui l’altro è percepito come non-me, ed è allora che può essere usato (il seno è altro da sé dal quale nutrirsi, che può anche maltrattare, addentare, mangiare, distruggere senza che l’oggetto vada realmente distrutto, cioè scompaia o reagisca). Il passaggio dal primo al secondo momento è caratterizzato dalla distruzione fantasmatica dell’oggetto da parte del bambino, dalla scoperta e dalla gioia dovuta alla sua sopravvivenza e dalla possibilità di usarlo in quanto oggetto non-me. L’oggetto sopravvissuto, quindi, può essere usato poiché è uscito dall’area del controllo onnipotente del soggetto. Winnicott scrive che “le madri, come gli analisti, possono essere sufficientemente o non sufficientemente buone: alcune possono, altre non sono in grado di portare il bambino dall’entrare in rapporto all’usare” (winnicott, 1971, p. 155).
L’area intermedia, caratterizzata dall’oggetto transizionale (es. bambolotto o altro oggetto al quale il bambino è particolarmente legato), dopo il dito (autoerotismo orale), rappresenta l’oggetto contenitivo esterno (che prima era interno – madre come parte di ‘me’) e permette il passaggio da una modalità all’altra di entrare in contatto con l’oggetto. Ma non è l’oggetto ad essere transizionale, bensì l’oggetto rappresenta la transizione stessa da uno stato di fusione a uno stato di rapporto con la madre come persona (cfr. Carotenuto, 1991,p. 103). È nel momento in cui l’oggetto transizionale aiuta a colmare la distanza fra ‘me e non-me’ che il bambino diviene consapevole della separazione tra sé ela realtà esterna, pur mantenendo il controllo onnipotente sull’oggetto transizionale (cfr. Fonagy, Target, 2003, p. 176).
Il Sé, che affonda le sue radici in quell’aggregato di vitalità senso-motoria che si pensa caratterizzi il mondo interno del neonato, per Winnicott emerge proprio nel momento della differenziazione del me dal non-me (cfr. ibidem, p. 178) e “rappresenta la realizzazione di un potenziale che potrebbe essere compromesso da influenze ambientali, ma che, altrimenti, verrà alla luce grazie ai gesti creativi del bambino” (ibidem, p. 180).
Gli oggetti transazionali, dunque, si dispongono nello spazio tra il Sé e la realtà esterna, lo spazio nel quale si verifica la simbolizzazione, in cui crescono amore e amicizia significativi, affettuosi, condivisi ma separati, dove gioco ed illusione vengono mantenuti nelle attività spontanee e creative delle persone sane (cfr. Winnicott, 1971). In questo senso si può intendere lo spazio transizionale (che comprende anche l’oggetto, ma che non si identifica con questo) come realtà simbolica, poiché in esso gli opposti, quali soggetto ed oggetto, corpo e psiche, gioco e realtà, fusione e differenziazione, me e non-me, sono presenti contemporaneamente, ed anticipano nuove sintesi trasformative.
La realtà simbolica in Winnicott e Jung
Scrive Winnicott: “Noi facciamo esperienza della vita nell’area dei fenomeni transizionali, nell’eccitante sconfinamento della soggettività e della osservazione oggettiva, in un territorio che è intermedio tra la realtà interiore dell’individuo e la realtà condivisa del mondo, che è esterna agli individui” (ibidem, p. 108).
SecondoRose il processo transizionale, che ha le sue radici nella fase transizionale, può essere osservato nella creatività della vita di tutti i giorni (cfr. Cwik, 1991, p. 101). Insieme ad altri autori, pone l’accento sulla creatività del processo transizionale e sul fatto che esso si ripropone durante tutta la vita nel suo gioco di tensioni tra due realtà in opposizione (soggetto e oggetto, vecchio e nuovo, prima e dopo, ‘me’ e ‘non me’) dalle quali emerge il terzo, il simbolo che le contiene entrambe e che permette il passaggio, la transizione appunto, ad una nuova condizione dell’esistenza.
Queste riflessioni ci conducono a quello che è il cuore della teoria di Winnicott, il gioco nei suoi aspetti creativi ed immaginativi (cfr. Winnicott, 1971). Scrive Cwik in proposito: “L’oggetto transizionale costituisce la prima esperienza del gioco perché il bambino ‘crea’ un concetto mentale dell’oggetto quale rappresentazione simbolica del sé e della madre, in quanto ‘me’ e ‘non-me’”. Ed aggiunge: “Per estensione, il suo punto di vista coincide con la descrizione di Jung della realtà simbolica che implica un’immagine che può unire gli opposti” (Cwik, 1991, pp. 100-1).
Il simbolo per Jung, a differenza del segno, “non comprende e non spiega, ma accenna, al di là di se stesso, a un significato ancora trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito, che le parole del nostro linguaggio non potrebbero adeguatamente esprimere” (Jung, 1926,pp. 360-1). Nel simbolo, scrive, “si compie l’unione dei contenuti consci e inconsci e da quest’unione risultano nuove situazioni o nuovi atteggiamenti della coscienza. Perciò ho chiamato ‘funzione trascendente’l’unione degli opposti. In questa guida della personalità alla pienezza consiste lo scopo d’una psicoterapia che pretende di non essere mera cura di sintomi” (Jung, 1939a, p. 280). Si tratta di un processo vitale irrazionale che si esprime attraverso simboli dunque, che Jung definisce funzione trascendente.
Una chiara descrizione egli ce la propone in una delle sue numerose lettere, che risale allo stesso periodo della citazione precedente, in risposta a Monsieur A.Zarine. In essa scrive che l’espressione funzione trascendente caratterizza esattamente il passaggio da uno stato ad un altro, stabilisce l’equilibrio psichico tra le tensioni opposte coscienti ed inconsce. Un classico esempio di funzione trascendente è rappresentato dalla tentazione di Cristo da parte del diavolo. Per Jung il diavolo tentatore sta a rappresentare “una volontà di potenza inconscia che si manifesta nel Cristo sotto forma di diavolo. I due aspetti appaiono con evidenza: l’aspetto oscuro e l’aspetto luminoso. Il diavolo vuole indurre Gesù a proclamarsi padrone del mondo. Gesù non vuole cedere alla tentazione e poi appare, grazie alla funzione (trascendente) risultante da ogni conflitto, un simbolo: l’idea del regno dei cieli, del regno spirituale, che prende il posto del regno materiale. Due cose sono unite in questo simbolo: il punto di vista spirituale del Cristo e il desiderio diabolico di potenza” (Jung, 1939b, p. 307).
Funzione trascendente e spazio transizionale
La funzione trascendente e lo spazio transizionale, dunque, sembra che condividano, seppur esprimendo punti di vista diversi, una realtà intermedia, simbolica, creativa e trasformativa. Tuttavia la prima può essere vissuta anche come esperienza essenzialmente individuale, mentre il secondo ha bisogno di un oggetto esterno dal quale il Sé possa differenziarsi.
Entrambi sono forieri di una trasformazione. Ad opera della funzione trascendente avviene la sintesi del processo trasformativo, la coincidentia oppositorum, la realizzazione del Sé rappresentata dal simbolo. Lo spazio transizionale, nel quale viene vissuto l’oggetto transizionale, contiene in sé ma allo stesso tempo precede lo scopo del processo creativo, cioè la differenziazione del me dal non-me e l’acquisizione (interiorizzazione) di elementi dell’oggetto. Ad esempio il bambino, facendo esperienza della funzione materna di contenimento, tenderà ad interiorizzarla. La stessa cosa vale per quella che Winnicott definisce esperienza culturale, che sembra rappresentare il destino della prima esperienza nello spazio potenziale originario (cfr. Winnicott, 1971, p. 161).
Scrive in proposito: “Quando si parla di un uomo si parla di lui insieme con la somma delle sue esperienze culturali. L’insieme forma una unità. Ho usato il termine esperienza culturale come estensione dell’idea di fenomeni transazionali e del gioco… Nel fare uso della parola cultura io penso alla tradizione che si eredita. Penso a qualcosa che è parte del patrimonio comune dell’umanità, a cui i singoli e i gruppi di individui possono contribuire, e da cui tutti noi possiamo attingere se abbiamo un posto dove mettere ciò che troviamo”(ibidem, p. 159). E per trovare un posto intende l’aver dato la possibilità al Vero Sé di nascere, crescere, svilupparsi e giocare creativamente con gli oggetti esterni.
Nella stanza dell’analista, invece, Winnicott si trova a dover insegnare ai pazienti a giocare creativamente con il mondo.
A mio avviso il luogo nel quale si può riscontrare maggiormente la vicinanza tra il due modi di concepire la realtà intermedia è nella stanza dell’analista. Nella stanza dell’analistail soggetto non è solo, sia che l’analista sia Jung sia che sia Winnicott, perché ha di fronte a sé un analista-oggetto con il quale interagire creativamente, in maniera dinamica, giocare.
L’analista, per Winnicott, dovrebbe fornire quelle condizioni di fiducia che possono far scaturire l’attività creativa ed il gioco, in modo da costruire esperienze basilari per la formazione ed il consolidamento del senso di sé. È fondamentale quindi che il terapeuta recepisca le comunicazioni indirette e possa in una certa misura rifletterle indietro all’individuo. “In queste condizioni altamente specializzate l’individuo può raccogliersi ed esistere come unità, non come una difesa contro l’angoscia ma come un’espressione di io sono, io sono vivo, io sono me stesso… Da questa posizione ogni cosa è creativa” (ibidem, p. 98).
Per Jung soltanto lo psicologo dotato di una preparazione adeguata è in grado di fornire al paziente la funzione trascendente, necessaria per elaborare un nuovo atteggiamento (cfr. Jung, 1957/58, p. 88). L’analista può così diventare il catalizzatore della funzione trascendente, permettendo alla realtà simbolica di costellarsi. Nel gioco delle parti, quindi, egli potrebbe rappresentare a volte il contenitore di immagini inconsce che l’io del paziente ancora non riesce ad affrontare (proiezioni del paziente – personificazioni psichiche), ma a volte potrebbe elaborare al posto del paziente stesso il simbolo che comprende in sé contenuti inconsci e coscienti (funzione trascendente). “Vediamo dunque – scrive Jung – che la funzione trascendente appare per così dire provocata artificialmente nel corso della cura, poiché è sostenuta essenzialmente dall’aiuto del medico. Ma se il paziente deve giungere a reggersi da solo, non dovrebbe, a lungo andare, aver bisogno dell’aiuto esterno” (ibidem, p. 92).
Questa dinamica può ricordare la concezione della terapia di Winnicott intesa come gioco terapeutico, anche se nel suo caso è volta a riattivare un processo che ha avuto un arresto evolutivo nell’infanzia, reinventando un rapporto madre-bambino che è stato deficitario. Come per Jung, anche per Winnicott l’analista gioca un ruolo, il ruolo che nel passato sarebbe dovuto appartenere alla madre, un gioco che, dall’unione simbiotica, accompagna il paziente-bambino verso la differenziazione.
Scrive Cwik: “Winnicott ritiene che la psicoterapia stessa abbia a che fare con due persone che giocano insieme. E, dove ciò non sia possibile, che il compito del terapeuta sia quello di aiutare il paziente a raggiungere uno stato in cui egli possa cominciare a giocare di nuovo… L’obiettivo di Winnicott in terapia è quello di aiutare il paziente ad iniziare ‘una vita creativa ed immaginativa’” (Cwik, 1991, p. 101). Ed in questo non si differenzia da Jung che pone come scopo d’una psicoterapia la guida della personalità alla pienezza, intesa come capacità di giocare con gli opposti, come possibilità di accesso alla realtà simbolica.
Gioco ed immaginazione attiva
Winnicott definisce il gioco come una esperienza creativa di vita che si svolge in un continuum spazio-temporale (cfr. Winnicott, 1971 p. 88), quindi è un’esperienza dinamica, ed aggiunge che è “soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé” (ibidem, p. 94). La creatività della quale egli parla, come era anche per Jung, non coincide necessariamente con l’aver prodotto un’opera d’arte notevole, riconosciuta dalla società per il suo enorme valore estetico, ma l’obiettivo del gioco creativo è quello di costruire l’intera esistenza dell’uomo come esperienza. Winnicott voleva insegnare ai pazienti a giocare di nuovo e ad iniziare una vita autonoma creativa ed immaginativa, ad essere soli.
Anche Jung parla del fatto che il paziente va accompagnato nel processo che gli permetterà, alla fine dell’analisi, di differenziarsi dall’analista e quindi, come per Winnicott, di affrontare la sua vita concreta ed immaginativa da solo. Egli si rese conto che, nella fase sintetica dell’analisi, un mezzo importante a disposizione del paziente per affrontare il percorso di separazione dalla figura dell’analista è l’immaginazione attiva. Riuscire praticare l’immaginazione attiva, che secondo gli insegnamenti di Jung va svolta individualmente, sta a significare l’aver acquisito una certa autonomia psichica rispetto all’analista e l’aver raggiunto un certo equilibrio rispetto alle immagini psichiche.
L’immaginazione attiva è il gioco puro delle immagini che dialogano con l’io. Con l’immaginazione attiva si è nella funzione trascendente poiché coscienza ed inconscio sono entrambi presenti e giocano tra di essi cercando continuamente di compenetrarsi, proprio come nell’immagine simbolica del Tao, sintesi creativa dello Yin e dello Yang cinesi, in cui nella metà nera è presente il cerchio bianco ed in quella bianca il cerchio nero.
Jung parla di un vero e proprio istinto del gioco che, scrive, “provvede per necessità interiore alla produzione di nuovo. Lo spirito creatore gioca con gli oggetti che ama” (Jung, 1921, p. 131). Anche in Jung, come in Winnicott, troviamo riferimenti ad oggetti concreti della realtà esterna con i quali giocare, i quali rappresentano il veicolo per accedere al flusso delle immagini psichiche. In Ricordi, sogni, riflessioni racconta che, falliti i tentativi di trovare nell’infanzia la causa delle sue inquietudini (visione eziologica), disse: “’Dal momento che non so nulla, farò solo tutto ciò che mi viene in mente’. Così, coscientemente, mi abbandonai agli impulsi dell’inconscio” (Jung in Jaffè, 1961, p. 215). Cominciò, nei ritagli di tempo, a costruire casette, castelli, portali, archi in pietra, il gioco che da bambino lo aveva tanto appassionato (il gioco e gli oggetti che aveva amato) poiché “Il fanciullino è ancora presente, e possiede quella vita creativa che a me difetta” (idem), scrive Jung. Benché egli sapesse che attraverso quel gioco di bambino stava nutrendo una parte di sé dimenticata, sentiva forte la resistenza dell’io che percepiva come “una esperienza dolorosa e umiliante sentirsi costretto a mettersi a giocare come un bambino!” (ibidem, p. 216). Ma presto scoprì che era quella la strada da seguire, che il gioco delle costruzioni costituiva solo il principio, il rite d’entrée necessario perché nascesse ed avesse il suo corso il fiume delle fantasie. Successivamente si rivolse alla pittura, alla scultura per cercare il varco, il passaggio concreto e allo stesso tempo metaforico per accedere alle sue fantasie. Ebbe bisogno, come direbbe la Von Franz, di maneggiare materialmente degli oggetti concreti per dischiudere le porte dell’anima, e dell’arte come rituale di entrata. Dunque, per Jung l’oggetto rappresenta il mezzo per iniziare a dialogare con le immagini, per accedere alla realtà simbolica, di natura intrapsichica
Una volta aperto il varco Jung vide che: “Una catena di rappresentazioni di fantasia si sviluppa e assume gradualmente un carattere drammatico: il processo passivo diviene un’azione. Dapprima essa consiste di figure proiettate, e queste immagini vengono osservate come scene su un palcoscenico. In altre parole, sognate a occhi aperti. C’è, di solito, una marcata tendenza a godersi semplicemente questo spettacolo interiore, … ciò che si rappresenta sul palcoscenico rimane ancora un processo di sfondo; non tocca l’osservatore in alcun modo: e quanto meno lo tocca, tanto minore sarà l’effetto catartico di questo teatro privato. Il pezzo che viene messo in scena non vuole essere solo guardato con imparzialità, vuole costringere alla partecipazione. Se lo spettatore capisce che è il suo stesso dramma che si sta rappresentando sul palcoscenico interiore, non può restare indifferente alla trama e al suo scioglimento; si accorgerà, via via che gli attori si succedono e che l’intreccio si complica, che … è l’inconscio che si rivolge a lui e fa sì che queste immagini di fantasia gli appaiano davanti. Si sente perciò costretto, o viene incoraggiato dal suo analista, a prendere parte alla recita” (Jung, 1955/56, pp. 495-6).
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